di Danilo Breschi

Niccolò Machiavelli, grande debitore di Lucrezio, al pari di tanta parte della cultura fiorentina umanistico-rinascimentale. È stato appena tradotto in Italia, per i tipi della Carocci, il più recente libro di Alison Brown sull’influenza, ampia, profonda e cruciale, di Lucrezio (“Fortuna e libertà nella Firenze del Rinascimento”, con postfazione di Mario De Caro), e, tramite il suo poema “De rerum natura”, delle idee epicuree sulla cultura fiorentina fra Trecento e Quattrocento, e dunque sulla fioritura del Rinascimento. Il titolo originale è infatti: “The Return of Lucretius to Renaissance Florence”. La traduzione italiana risponde ovviamente alla necessità di rendere (relativamente) meno “di nicchia”, meno riservato ai soli addetti ai lavori, questo meticoloso lavoro filologico e di “sfruttare” il perenne interesse, non solo presso il pubblico italiano, che suscita il nome di Machiavelli, raddoppiato quest’anno dalla ricorrenza dei cinquecento anni dalla stesura del celeberrimo “Principe” (o, almeno, di gran parte di esso, stante l’altrettanto celebre lettera a Francesco Vettori datata 10 dicembre 1513). D’altro canto, l’influenza lucreziana sul pensiero di Machiavelli è considerevole, e ne determina quelle caratteristiche che ne hanno fatto un momento di cesura fondamentale nella storia della riflessione politica occidentale.

Di fatto, Machiavelli inaugura la modernità politica, magari ben oltre le sue originarie intenzioni e senz’altro avvalendosi di figure e concetti tutti immersi nel medio evo o nell’antichità classica, soprattutto romana. Ma è proprio da quella combinazione originale, precipua dell’età rinascimentale, che nasce il moderno in politica. E sulla scorta dell’attenta ricostruzione filologica della Brown pare confermata essere la secolarizzazione, o trasformazione in chiave immanentistica di idee (anche) “religiose”, la cifra più tipica dell’età cosiddetta “moderna”. Tutto ebbe inizio con Boccaccio e la sua “riabilitazione” di Epicuro, considerato dall’autore del “Decameron”, a dispetto della fama che aveva avvolto il filosofo greco nell’età di mezzo, quale promotore di valori come l’amicizia e la rettitudine morale.

Restano ancora sospette le principali convinzioni epicuree: la credenza che gli dèi sono indifferenti alle vicende umane, che il mondo è eterno e non è governato dalla provvidenza divina, che l’anima muore con il corpo e che il piacere è il bene più elevato e prezioso. Ma queste opinioni tornarono con il ritrovamento presso un monastero tedesco, compiuto da Poggio Bracciolini nel 1417, del manoscritto, unica copia sopravvissuta, del “De rerum natura”, la cui vicenda è stata recentemente ricostruita e narrata da Stephen Greenblatt (“Il manoscritto”, Rizzoli 2012). Il poema filosofico lucreziano avrebbe avuto un impatto straordinario su artisti e pensatori, e così longevo da giungere fino a Freud e Einstein, passando per Botticelli e Giordano Bruno, Montaigne e Shakespeare. E Machiavelli, appunto. Dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, che i libri dotati di originalità e potenza intellettiva cambiano la storia del mondo. Il quindicesimo secolo cominciò pertanto a veder serpeggiare in modo più o meno clandestino nella Firenze, prima papale (Poggio stesso fu segretario papale dal 1423 al 1453, e la città toscana ospitò dal 1434 la corte papale – per circa un decennio – e nel 1439 fu sede del concilio ecumenico) poi medicea, il “naturalismo radicale” e una nuova visione del mondo, scettica e razionale, sempre più in contraddizione con molti dei valori del tradizionalismo religioso cristiano.

A partire da Marsilio Ficino, scrive Brown, “l’interesse per Lucrezio si diffuse a Firenze tra i laici al di fuori dei circoli papali, generando nel corso del Quattrocento un repentino incremento di copie manoscritte” del poema lucreziano. Tramite Bartolomeo Scala e Marcello Adriani l’interesse per l’opera lucreziana si diffuse anche negli ambienti della cancelleria fiorentina, dove giunse anche il giovane Niccolò Machiavelli, che pare dell’Adriani fu allievo, e senz’altro stretto collega nella cancelleria. Del “De rerum natura” Machiavelli fece una trascrizione, la cui versione autografa fu rinvenuta da Sergio Bertelli nel 1961. Dunque Lucrezio “offre una chiave preziosa per comprendere le opinioni di Machiavelli sulla natura degli uomini, sulla religione e sul cosmo”. Libertà e fortuna, in particolare, sono i concetti che Machiavelli elaborò sulla base di una forte influenza lucreziana, e che ne corroborarono un’idea di politica in cui l’agire umano si esplica in autonomia, o meglio: “con flessibilità morale”, rispetto ai dettami della Chiesa cristiana, anche se trova ostacoli in un determinismo naturale mai però assimilabile a quel meccanicismo che prenderà piede solo un paio di secoli dopo.

La stessa idea della religione come superstizione fondata sulla paura della punizione è un grande tema lucreziano che attecchisce nel cuore della riflessione politica machiavelliana, che sviluppa l’idea della fede in un Dio ultraterreno come garanzia di legittimazione di un governo di uomini su altri uomini. Così il Segretario fiorentino nei “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio”: “E veramente mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio; perché altrimente [sic] non sarebbero accettate”. E all’amico Vettori ribadì più volte come “il timore è il maggiore signor che si truovi”. Inoltre, secondo Brown, il libero arbitrio per Machiavelli non è un dono elargito dalla grazia divina, bensì una caratteristica naturale condivisa da uomini e animali. Anche qui c’è lo zampino di Lucrezio. L’“uomo buono” machiavelliano è morale in senso civile e patriottico, ossia è colui che si dimostra capace di provvedere alla sicurezza e al bene comune. “Né immorale né devoto”, così la Brown qualifica il pensatore fiorentino.

Come ben specificato da Mario De Caro nella postfazione, “l’indeterminismo di matrice epicureo-lucreziana che dà luogo alle “occasioni” (che “per metà delle azioni nostre” ci aprono lo spazio della libertà)” si combina in modo unico ed originale con la credenza machiavelliana nei condizionamenti astrali e in quelli metastorici. L’astrologia non è segno della mancata o scarsa modernità del Segretario fiorentino, poiché gli influssi astrali sono pensati come “naturali”, non governati da intelligenze celesti. E poi Machiavelli, precisa la Brown, crede che “astra inclinant non necessitant”. In definitiva, Machiavelli è il pensatore della “contingenza”, della consapevolezza che esistono momenti in cui la nostra “virtù” può inserirsi con forza e/o astuzia per autodeterminarsi. Una virtù “ordinata”, ovvero consapevole delle leggi dell’agire politico, saprà trarre vantaggio dalle occasioni che le circostanze offrono e fare così aggio sulla fortuna.

Si tratta, inoltre, di una virtù sia individuale sia collettiva. Capacità del singolo di rispondere con flessibilità ed efficacia alle emergenze infinite della realtà, capacità del popolo, inteso come comunità repubblicana dei cittadini, di votarsi al bene della patria, pronti a morire per la sua difesa così come per la sua espansione. L’antica Roma repubblicana resta l’esempio più alto su cui innalzare una lezione di realismo politico che apre alla modernità. Non siamo però ancora dentro quella totale rottura nichilistica con il passato, quel rifiuto cinico della lezione repubblicana ed umanistica, che sarà propria del machiavellismo, degenerazione successiva dell’autentico discorso machiavelliano, certo non scevro da pulsioni ferine e tentazioni verso una ferrea volontà di potenza, ma pur sempre assai meno disincantato di quel che si sia soliti pensare.

 

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