di Alessandro Rico

In una celebre conferenza del 1919, Max Weber parlava di «politici di professione»: era la pletora di faccendieri accodati ai leader carismatici, ma pure la squadra di uomini-ombra in grado di attivare la macchina di partito. E poi c’era l’intraducibile ambiguità del termine tedesco Beruf: «professione», ma anche «vocazione». Professionisti come mestieranti, oppure come «sacerdoti» della politica. In Italia, il desiderio diffuso di una classe dirigente più degna, ultimamente ha comportato la curiosa affermazione di una nuova categoria: la «società civile». Espressione hegeliana, spogliata della sua caratterizzazione idealistica e dotata piuttosto di valenza sociologica, a indicare la grande classe media di imprenditori, lavoratori autonomi o dipendenti, estranea al mondo dei politici di professione in senso deteriore, cioè alle poltrone e ai giochi di palazzo.

La narrazione della società civile che «scende» o «sale» in politica ha toccato anche le corde di molti liberali, compreso chi scrive. Di per sé, in effetti, l’idea che i «produttori» assumano su di sé, in una fase di emergenza, anche il compito di «amministratori», non è peregrina. È pragmatica, ma tutto sommato riconducibile entro una concezione contrattualistica del mandato politico, per cui, venuto meno il consenso dei contraenti nei confronti del beneficiario, i primi si riappropriano del bene alienato. Questo era, sebbene un po’ confusamente, l’intento dei grillini. Questo era il progetto di Scelta Civica e di Fare per Fermare il Declino. Com’è andata a finire?

Per rispondere bisogna separare il grano dalla zizzania. La zizzania è il gruppo di Monti: qui c’era la finta società civile. Monti ha semplicemente portato in prima linea la retroguardia di poteri forti, già ben collegati con il potere costituito e lontani dal «Paese reale»: una cerchia emblematicamente rappresentata dall’affaire Cancellieri.

Veniamo al Movimento 5 Stelle e alla lista di Oscar Giannino. Il segno più evidente di distacco dal tradizionale modus operandi della politica è rappresentato dal rigetto del «partito». Anche se, almeno nel caso di Fare, l’organizzazione interna era effettivamente partitica. Grillo incarna il fenomeno di un leader carismatico che si trascina il suo apparato di sconosciuti, sapientemente affiancato da un «professionista» del marketing, Gianroberto Casaleggio. Al di là delle idee dei «cittadini eletti», delle quali non discutiamo in questa sede, oggettivamente il risultato dell’esperimento grillino, è stato quello di portare in Parlamento una porzione a tratti grottesca della società civile. Non che siano tutti incompetenti, per carità; saranno ottimi ingegneri, biologi, informatici, giornalisti, ma scontano una fatale inesperienza che li assimila alle evangeliche «pecore in mezzo ai lupi». Un deficit incolmabile, perché al Movimento manca proprio quell’apparato che può formare un novizio all’arte del governo e sostenerlo nella sua attività. Né mancano gli incorreggibili: dai «cittadini» digiuni di diritto pubblico, ai complottisti, a quelli che iniziano ad assumere i peggiori atteggiamenti dei «vecchi» politici, quelli che, per dirla con Weber, vogliono vivere «della politica» e non «per la politica».

E poi c’è il caso di Fermare il Declino, meteora implosa anche per colpa di Gianninobugia.

FiD non aveva né un guru del marketing, né un vero mattatore. Alla mancanza di un’arma da assedio mediatico si sommava l’insufficienza delle risorse economiche. E a ciò si aggiungeva l’impossibilità di operare una selezione accurata dei candidati, scelti di fretta solo in base ai curricula, senza che si sapesse chi erano, quanto erano brillanti, quanto erano capaci, quanto erano presentabili, quanto fossero «mestieranti» e quanto «sacerdoti». Last but not least, c’era il nodo gordiano dell’insicurezza economica: come può un imprenditore lanciarsi in politica, senza paracadute? Vivere «per la politica» implica anche che si viva «della politica».

In questo duplice senso la politica deve essere una professione. Nelle democrazie moderne, alle prese con l’esigenza di conquistare il consenso, c’è bisogno di troppo tempo e troppi soldi per affidarsi a coraggiosi dilettanti. La politica necessita di un apparato di tecnici, esperti pubblicitari, ghost writers, consulenti. Naturalmente, ci si deve aspettare che la qualità della classe dirigente si elevi, ma non che la palingenesi passi per degli outsider. La politica è inesorabilmente consegnata alle élites. Il vero dramma, semmai, è che oggi non si scorgono soluzioni al loro decadimento morale e culturale; a esso reagiscono convulsamente solo machiavelliani «profeti disarmati». Il focus andrebbe spostato sui meccanismi di formazione e di selezione dei gruppi dirigenti, che sono comunque destinati a costituirsi in una «classe»: vincolati al consenso dei mandanti, certo, ma integralmente assorbiti dalla «professione» del buongoverno, che deve essere la loro ragione di vita, ma pure la loro fonte di sostentamento. Come diceva Croce, il politico onesto è il politico capace: non ci sono uomini «prestati» alla politica, solo uomini con la «vocazione» per la politica – e una vocazione dev’essere totalizzante: la vocazione deve diventare professione. Per tornare a Max Weber: «Soltanto chi è sicuro di non cedere anche se il mondo, considerato dal suo punto di vista, è troppo stupido o volgare per ciò che egli vuole offrirgli, soltanto chi è sicuro di poter dire di fronte a tutto questo: “Non importa, andiamo avanti”, soltanto quest’uomo ha la “vocazione” per la politica».

 

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