di Danilo Breschi

Poche settimane fa, dopo aver ascoltato con interesse la presentazione che Letta ha fatto del piano “Destinazione Italia”, un progetto per attirare gli investimenti esteri e favorire la competitività delle imprese italiane, l’American Chamber of Commerce in Italy ha dichiarato che il governo italiano deve impegnarsi in alcune “aree critiche dove servono miglioramenti” e ha indicato espressamente, e nell’ordine seguente, la burocrazia, il sistema giudiziario, le tasse, il mercato del lavoro, i trasporti. Ebbene l’invito, anche dopo la presentazione della Legge di stabilità, pare rimasto del tutto inascoltato da parte del governo. Nessuno dei punti evidenziati dall’American Chamber, che poi sono gli stessi sottolineati dalle principali associazioni di categoria del nostro Paese, è stato minimamente “aggredito”, ossia affrontato con un pizzico almeno di incisività, dal governo Letta che a tale compito era stato chiamato, da Napolitano e dall’opinione pubblica.

Dopo aver conosciuto il contenuto della Legge di stabilità, così come proposta dal Consiglio dei Ministri, l’impressione generale è che la montagna del governo di grande coalizione abbia partorito un topolino. Le “larghe intese” si stanno rivelando ogni giorno di più come delle “strette fraintese”, nel senso che sempre più stretto appare il margine di manovra del governo Letta e non solo per la mancanza ormai cronica di risorse, ma anche per l’assenza di un vero sostegno parlamentare. Letta dice che l’armonia tra i membri del governo regna sovrana, e gli crediamo, e siamo contenti per tutti loro, ministri della Repubblica, ma forse ci si dimentica che, piaccia o no, la nostra è una forma di governo parlamentare. Senza la fiducia convinta e continua della maggioranza in Camera e Senato qualsiasi governo della Repubblica italiana fa vita stentata. E non parlo solo di un voto di fiducia ogni tanto, come quello del 2 ottobre scorso. Sto parlando di un sostegno forte e continuo che avrebbe dovuto portare un governo votato da Pd, Pdl e Scelta Civica a produrre una politica snella ma incisiva, e almeno un poco programmatica. Ciò che solo giustifica un governo di “grossa coalizione”.

Al di là di alcuni punti, pochi, su cui c’è convergenza, il contenuto delle proposte dei due maggiori partiti di governo dimostra quanto precaria e forzata sia rimasta questa maggioranza. Si è avuto un diluvio di emendamenti alla Legge di stabilità. Le richieste di modifica presentate in commissione Bilancio sono state 3.093. Il Pd ha presentato 992 emendamenti, il Pdl 814, Scelta Civica 166. Sia singolarmente sia come totale, i partiti di maggioranza hanno presentato un numero di emendamenti incommensurabilmente più elevato di quanto abbiano fatto i partiti di opposizione (il M5S 283, la Lega 372, Gruppo misto-Sel 248, Grandi autonomie e Libertà 112, Movimento per le autonomie 106). E allora di cosa ci parla Letta? Poco conta a questo punto che vi sia concordia dentro il Consiglio dei ministri. Le intese tra i ministri saranno pure “larghe”, ma tra i partiti che sostengono la maggioranza (e senza cui, Costituzione alla mano, il governo non governa) risultano molto, ma molto “strette”.

Purtroppo, a distanza di oltre sei mesi dall’insediamento del governo Letta, dobbiamo constatare ancora una volta che il riformismo non è terreno culturale e programmatico su cui in Italia si intenda fare politica. Prevalgono ancora e sempre gli interessi di bottega, non solo dei partiti, ma anche delle mille corporazioni che frammentano questo Paese. L’Italia è un ammasso confuso e aggrovigliato di corporativismi spesso l’un contro l’altro armati. Ad ogni governo, anche se poggiante su presunte “larghe intese”, non resta ogni volta che mediare e trovare una linea che non è di compromesso per andare avanti ma di compromissione per restare il più possibile fermi, là dove il maggior numero di interessi del maggior numero di corporazioni non vede intaccati i propri privilegi accumulati nei tempi andati delle “vacche grasse”.

Spesso queste corporazioni non sono le categorie più produttive della nostra economia nazionale, le quali, invece, si ritrovano costantemente messi i bastoni tra le ruote delle loro attività da cui la crescita del nostro Pil in gran parte dipende. La quasi totalità degli investitori esteri lamenta la presenza in Italia di costi eccessivi, poca flessibilità e soprattutto incertezza del diritto. Pasquale Siciliani, avvocato presso la Dla Piper, uno dei più grandi studi legali internazionali nel mondo, ha raccontato al “Foglio” la propria esperienza di consulente chiamato ad orientare gli investitori stranieri nel nostro mercato del lavoro: “per essere competitivi bisogna vagliare riforme che semplifichino le regole e che ci avvicinino maggiormente agli stati europei”.

Quanto alla certezza del diritto, il pensiero corre subito a quanto successo con la cosiddetta “piccola mobilità”, il bonus che era stato riservato a chi avesse assunto un dipendente licenziato da una piccola impresa in crisi. Dallo scorso gennaio non esiste più, ma, come ricorda Filippo Santelli su “la Repubblica” del 6 novembre scorso: “quello che le aziende non immaginavano è che fossero in pericolo anche gli sgravi sui contratti firmati nel 2012, quando lo strumento era ancora attivo. Lo hanno scoperto solo qualche giorno fa, nelle pieghe di una circolare Inps: “In via cautelare deve ritenersi anticipata al 31 dicembre 2012 la scadenza di ogni beneficio connesso a rapporti di lavoro agevolati”. Tradotto dal burocratese: “Tutti gli incentivi si sono esauriti a dicembre”. Così, prosegue Santelli, “in barba alla non retroattività, le imprese che per l’intero 2013 hanno calcolato stipendi con i contributi agevolati rischiano ora di dover rendere la differenza: dai 3mila ai 4mila euro ciascuna, un milione e mezzo in totale nella sola provincia di Treviso, la cui Confartigianato ha alzato per prima la voce. Due milioni e mezzo nella vicina Vicenza”. La notizia si commenta da sola.

Già più di un anno fa Stefano Dolcetta, poco dopo l’elezione a vicepresidente di Confindustria con delega alle relazioni industriali, sottolineava la necessità di contratti innovativi, che tenessero conto del contesto internazionale, salvaguardando contemporaneamente la competitività delle aziende e il potere d’acquisto delle famiglie per stimolare la domanda interna. “I posti di lavoro non si creano per decreto: sono le aziende che devono crescere, essere competitive e quindi in grado di assumere”. Occorrono però scelte precise di politica industriale, e anche di questo non si vede granché traccia nei primi sei mesi del governo Letta. “Il paese deve avere un modello di sviluppo”; diceva Dolcetta nel luglio 2012, rivolgendosi evidentemente al governo dei tecnici presieduto da Mario Monti, e invitando imprese e sindacati ad una proposta congiunta di riduzione del cuneo fiscale. Com’è possibile che questo modello di sviluppo maturi all’interno di un governo che poggia su basi parlamentari così claudicanti e contraddittorie?

Il fatto è che entrambi i partiti che offrono le due gambe su cui Letta si muove da presidente del Consiglio sono in fibrillazione crescente. Lo vedremo nei prossimi giorni e nelle prossime settimane. Come si suol dire, il più sano c’ha la rogna. Anche se giocano a guardare la pagliuzza nell’occhio altrui, Pd e Pdl sanno di avere a che fare con travi che offuscano la propria vista e che non sarà così semplice rimuovere. Ma è indubbio che lo scalpitare di Berlusconi da una parte e di Renzi dall’altra produce oscillazioni e vacillamenti nell’andatura del governo Letta. Questi, dal canto suo, punta a creare una maggioranza che rispecchi quanto prefiguratosi alla vigilia del voto di fiducia del 2 ottobre scorso. Tra gli “innovatori diversamente berlusconiani” e i neonominati senatori a vita, Letta dovrebbe poter contare su una discreta, se pur contenuta, maggioranza al Senato. Una maggioranza che l’esito delle elezioni del febbraio scorso ha reso di non facile reperimento. E così potrebbe assicurarsi quantomeno il semestre di presidenza europea che all’Italia spetterà nella seconda metà del 2014. Questione di prestigio personale oltreché d’immagine di stabilità da trasmettere agli altri stati europei. Questione di corsa interna al Pd per stabilire chi sarà davvero il candidato alla premiership nelle prossime elezioni. Il tempo gioca a sfavore di Renzi, e, guardando all’altro versante, forse anche di Berlusconi, che sconterà comunque una incandidabilità di almeno due anni.

Sotto il governo Letta, e cioè dentro quella maggioranza parlamentare senza la quale non è né può niente, covano due istanze uguali e contrarie che rischiano di portarlo alla fine per squartamento. Il possibile “redde rationem” potrebbe consumarsi tra il Consiglio nazionale del Pdl di sabato prossimo e le primarie del Pd dell’8 dicembre, passando per il voto in Senato per la decadenza di Berlusconi il 27 novembre. Siamo all’apparente paradosso di un Renzi che punta sulla linea dura del Cavaliere in modo che la decadenza di questi possa coincidere con la decadenza del governo, causa il venir meno dell’appoggio al governo della ricostituita Forza Italia. Una vittoria renziana dentro il Partito democratico, d’altro canto, renderebbe ancor più diviso il gruppo parlamentare del Pd, per quanto non abbia al suo interno un numero cospicuo di fedeli seguaci del sindaco fiorentino.

Stiamo di nuovo assistendo al vecchio gioco del cerino, frequente nella politica italiana. Tutti vogliono dar fuoco alle polveri e tornare alle urne, ma nessuno vuole restare con il cerino acceso in mano. La debole prova di sé che il governo Letta ha dato con la Legge di stabilità, innocua di fronte alla gravissima crisi in corso nel Paese, sta alimentando la convinzione che sia più conveniente andare a votare. E non solo per chi sta all’opposizione, come Lega e M5S. Dopo il governo da quasi completa legislatura di Berlusconi, quello breve ma “tecnico” di Monti, e ora quello “presidenziale” e speranzoso di Letta, la fiducia di azzeccarla al prossimo turno elettorale è oramai al lumicino.

(contributo già apparso su www.danilobreschi.com)

 

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