di Andrea Beccaro
Il 16 novembre 1831 intorno alle 21 si spegneva in Heilige-Geist Strasse 22 a Breslavia il generale tedesco Carl von Clausewitz a causa di un epidemia di colera; accanto a lui, come per gran parte della sua vita c’era la moglie Marie von Brühl conosciuta a Berlino nel dicembre del 1803 e sposata 10 anni più tardi. Quando Clausewitz morì era un personaggio noto grazie alla sua carriera militare che lo aveva portato a frequentare i riformatori militari tedeschi, Scharnhorst e Gneisenau, e a combattere contro Napoleone, anche tra le file russe quando il suo re si era alleato con il nemico francese. Ma senza ombra di dubbio non era considerato molto di più che un buon militare che dedicava diverso tempo a riflettere sulla guerra e a scrivere sullo stesso tema. Le opere già pubblicate erano certamente di interesse, ma quella per cui divenne un classico del pensiero militare e politico doveva ancora essere pubblicata. L’aveva già scritta, ma non ebbe il tempo di rivederla per la pubblicazione finale, che avvenne grazie l’impegno della moglie, e da quel momento in poi il Vom Kriege divenne un testo di riferimento per chiunque, critico o sostenitore, voglia affrontare la tematica del conflitto.
Oggi non vi è alcun dubbio che Clausewitz e il suo Vom Kriege possono essere considerati un classico da un punto di vista sia della riflessione militare sulla guerra e sul pensiero strategico sia della politica per ciò che concerne la natura dello scontro bellico e i suoi legami con la politica. Certamente la citazione più ripresa di Clausewitz è proprio relativa a quest’ultimo aspetto, “Der Krieg ist eine bloße Fortsetzung der Politik mit anderen Mittlen” (La guerra non è altro che la continuazione della politica con altri mezzi), che trasforma il conflitto in uno strumento della politica che al contempo assume una posizione di primato rispetto al primo.
Si potrebbe discutere su cosa sia e cosa intenda Clausewitz per politica e per guerra, ma non vi è dubbio che un’impostazione di tal genere permette di aprire una riflessione sull’oggi. Specie negli ultimi 20 anni in Occidente ci siamo abituati a veder spesa la forza militare in missioni dagli obiettivi quanto mai fumosi e con risultati spesso, per non dire sempre, assolutamente deludenti. Senza entrare nei dettagli e nel merito dei singoli casi basta un rapido elenco per capire a cosa ci si riferisce: Somalia 1993, ora il Paese è uno degli esempi più cristallini di failed state; Kosovo 1999, un Paese che vive solo grazie all’appoggio occidentale; Afghanistan 2001-in corso, al di là dei noti problemi politici e di sicurezza è di pochi giorni fa la notizia che nel Paese la produzione di oppio è aumentata malgrado la presenza occidentale; Iraq 2003-2011, uno stato oggi spaccato su linee settarie e politicamente instabile; Libia 2011, un Paese in cui il governo centrale non ha il controllo del territorio. Questo elenco dovrebbe già di per sé aprire a una maggiore riflessione politica su come impiegare la forza armata, con quali obiettivi e in che contesto.
Proprio il contesto ci riporta a Clausewitz. Molte delle critiche che gli sono state rivolte in maniera più o meno valida, erano e sono relative alla tipologia di guerra che ha in mente, ovvero il conflitto europeo tra stati sovrani governati da monarchi al tempo di Napoleone. Ma quella tipologia di conflitto è ovviamente superata dalla storia e così si deduce che lo sarebbe anche la riflessione clausewitziana. Non si può qui fare una critica ragionata e completa di una bibliografia ormai sterminata che va da Creveld alla Kaldor, da Peters a Metz, ma è giusto ricordare un aspetto spesso trascurato del pensiero del prussiano. È vero che nel Vom Kriege Clausewitz analizza quasi esclusivamente la tipologia di scontro bellico appena ricordata, ma bisogna tenere a mente tre aspetti. Primo, in passato egli aveva insegnato e scritto sulla kleine Krieg, ciò che noi oggi chiamiamo con una certa approssimazione guerriglia, dimostrando non l’originalità espressa in altre pagine ma di conoscere la tematica e gli autori di riferimento. Secondo, egli è ben consapevole sia della possibilità (e a volte necessità) di una guerra condotta da truppe irregolari quando non addirittura di vere e proprie milizie sia delle “regole” strategiche che si celano dietro a questa forma di guerriglia. Infine, ed è questo l’aspetto per noi più rilevante, essendo uno scrittore di storia militare egli è perfettamente cosciente che la guerra e la battaglia sono figlie del loro tempo, ovvero dipendono non solo dalla geografia del luogo in cui si svolgono, ma anche della tecnologia e della politica di quel periodo storico: “È importante perciò caratterizzare la forma moderna di una grande battaglia prima di studiarne l’impiego nella strategia”. Il decisore politico, prima che il militare, deve dunque “giudicare sanamente […] la guerra che egli sta per intraprendere, anziché valutarla o volerla valutare per ciò che non può essere secondo la natura delle cose”.
La guerra quindi non va intesa come un evento immutabile, ma come un qualcosa di cangiante, un camaleonte che muta pelle a seconda del momento storico. Questa sua attenzione verso il cambiamento nella natura della guerra è altresì testimoniata dal suo famoso triedro che compone la natura stessa del conflitto: violenza originaria, gioco delle probabilità e natura politica. Il peso di ciascuno di questi elementi è variabile a seconda del momento storico. Dunque chi decide per una guerra deve prima di tutto capire come essa si manifesta in quel particolare momento e agire di conseguenza.
È questa una delle grandi lezioni che possiamo ancora oggi ritrovare nelle pagine del Vom Kriege a distanza di 170 anni circa dalla sua pubblicazione. Prima di discutere se intervenire o meno in un conflitto, la domanda da porsi è che tipo di conflitto si deve affrontare? E di conseguenza cosa ci possiamo aspettare e come potremmo intervenire per raggiungere gli obiettivi prefissati. Come tutti i classici anche Clausewitz non va letto e pedissequamente applicato alla situazione attuale, che per sviluppo politico, culturale, militare, tecnologico ed economico, è radicalmente diversa dalla sua; ma va letto per porsi delle domande, per ottenere uno sguardo più critico e approfondito della realtà che abbiamo di fronte.
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