di Danilo Breschi
Nelle Considerazioni finali sull’anno 2012 in Italia, pubblicate nel maggio scorso, il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco si è espresso nei seguenti termini: “non siamo stati capaci di rispondere agli straordinari cambiamenti geopolitici, tecnologici e demografici degli ultimi venticinque anni. L’aggiustamento richiesto e così a lungo rinviato ha una portata storica; ha implicazioni per le modalità di accumulazione del capitale materiale e immateriale, la specializzazione e l’organizzazione produttiva, il sistema di istruzione, le competenze, i percorsi occupazionali, le caratteristiche del modello di welfare e la distribuzione dei redditi, le rendite incompatibili con il nuovo contesto competitivo, il funzionamento dell’amministrazione pubblica. È un aggiustamento che necessita del contributo decisivo della politica, ma è essenziale la risposta della società e di tutte le forze produttive”.
Ebbene, soffermiamoci sul primo dei “soggetti collettivi” evocati, ed esortati, dalla relazione di Visco: la politica. A distanza di vent’anni, siamo nuovamente di fronte ad una crisi del sistema partitico italiano, una crisi che, per vari motivi, stavolta rischia di portare dietro di sé l’intero sistema politico. Per dirla con terminologia politologica un tempo in voga: siamo di fronte ad una crisi “di” sistema o “nel” sistema?
L’impressione è che stiano saltando tutte le connessioni istituzionali e le interazioni produttive che rendono vitale un sistema complesso come può essere una democrazia parlamentare di società tecnologicamente avanzata, industriale o post-industriale, o entrambe le cose assieme (un po’ per transizione mai completata, un po’ perché oggi le più solide economie nazionali riprendono vita proprio grazie a questo mix apparentemente contraddittorio).
Esecutivo, legislativo e giudiziario paiono oggi corpi contrapposti piuttosto che separati, e “l’un contro l’altro armati” piuttosto che in reciproco stato di controllo e stimolo. Al di là delle attuali cosiddette “larghe intese”, è indubbio che fino a ieri e anche adesso, non foss’altro per quella vischiosità che è propria di ogni struttura politica, Pd e Pdl/Forza Italia sono gli architravi della nostra democrazia parlamentare. La centralità del Parlamento stabilita dalla nostra Costituzione resta nelle forme. Ciò resta nonostante il tentativo di superare l’attuale impasse del conflitto tra poteri dello Stato con un sovrappiù di iniziativa del Presidente della Repubblica, il quale da qualche tempo sta sfruttando al limite massimo possibile le prerogative costituzionalmente riconosciutegli. E la forma è in gran parte sostanza, nelle cose del diritto e della politica.
Ebbene, Pd e Pdl sono in grossa crisi. A intermittenza pare più imminente, e dunque più grave, quella dell’uno e così l’altro pare in salute, o con minor affanno. Ma è solo un’illusione ottica. Ricordate il Pd all’indomani della “vittoria di Pirro” conseguita nel febbraio scorso? E il momento quasi drammatico dell’elezione del Presidente della Repubblica fino al climax dell’impallinamento del padre nobile del centro-sinistra post-Tangentopoli, ovvero Romano Prodi? Adesso è il Pdl che soffre di convulsioni repentine e spasmodiche a seguito delle più recenti sentenze giudiziarie del suo leader-fondatore, senza il quale rischia lo sfaldamento, non essendosi mai strutturato per tempo in partito con organi collegiali e cariche elettive stabili, idee e programmi che andassero oltre l’estro estemporaneo del suo creatore. Sempre tattica, mai strategia. La sua mutazione/riesumazione in Forza Italia ne risente gravemente, anche al di là della scissione dei diversamente berlusconiani. Ma non è che nel Pd una qualche forma di distanza/attrito tra correnti interne non esista, e non covi. E non abbia potenzialità divisive. È solo meno esposta. Al momento può approfittare del fatto che l’apoplessia politico-programmatica sta infierendo sull’avversario. L’impressione è che per il Pd le primarie per la segreteria nazionale non saranno stavolta una parata trionfale, perché potrebbe vincere chi – come Renzi – non ha ancora effettivamente conquistato il partito nella sua struttura interna né persuaso culturalmente la base militante, che, seppure ridotta, ancora esiste ed è tale da possedere un suo peso specifico. L’attrazione di questa base verso altri lidi, più a sinistra, resta minaccia costante per Renzi. E in queste ultime ora incombe l’affaire Cancellieri e la mozione di sfiducia proposta dal deputato Pippo Civati, uno dei candidati alle primarie.
Rantolano a turno, Pd e Pdl. E se vacillano i due pilastri del sistema partitico attuale (poiché, piaccia o meno, questo si ritrovano ad essere per mancanza d’altro dopo Tangentopoli), traballa l’intera impalcatura istituzionale, tenuto anche conto della partigianeria di una piccola ma decisa parte della magistratura, che colpisce pure il Pd, magari indirettamente, come nel caso Mastella scoppiato all’inizio del 2008, quand’era ministro di Grazia e Giustizia del secondo Governo Prodi. Indirettamente certo, ma entra negli equilibri delle maggioranze di governo, e dà una piccola spinta, ora qua ora là, ai già pericolanti partiti nazionali. Obiezione: ma se fossero meno “ladri” i politici, non ci sarebbe questa intromissione che tu dici. In parte è vero, ma andiamo a vedere tutte le iscrizioni nel registro degli indagati e tutti gli avvisi di garanzia ad alte personalità politiche, specie se centrali nella composizione o scomposizione di maggioranze governative, e l’esito finale delle sentenze. Qualche perplessità affiorerà. Si pensi, da un lato, a quanto ha finora solo sfiorato lo stesso presidente Napolitano, rivelandosi peraltro infondato, e, dall’altro, a quanto è successo all’ex giunta regionale campana presieduta da Bassolino, indagata nel processo sui presunti illeciti nella gestione del ciclo dei rifiuti e che dopo anni è stata assolta con formula piena “perché il fatto non sussiste”.
Magari finalmente la politica si rimbocca le maniche, e allora potrebbe cascare a fagiolo Matteo Renzi, che spesso con maniche arricciate infatti si presenta. Potrebbe giocare il ruolo che si aspetta da tempo, anche dopo il mezzo (o intero?) flop di Grillo e del suo movimento una volta che si è seduto in Parlamento. Insomma, da Grande Rottamatore a Grande Ricostruttore. Perché questo chiedono coloro di cui la classe politica dovrebbe occuparsi se intendesse tornare appunto a “fare politica” dopo ventennale vacanza, in cui gli uni si sono divertiti a dar la caccia ai rigurgiti fascisti che sarebbero stati rimessi in spolvero dall’Imprenditore Nero armato di tv, e gli altri di conserva a sfruttare l’atavico moderatismo anticomunista da sempre maggioritario nel Paese e desideroso, ora a torto ora a ragione, di meno Stato. E il Paese in tutto questo? Va detto che, prima per convinzione o per inerzia, e poi sempre più per inerzia e sempre meno per convinzione, il Paese ha seguito pedissequo questa sfilata carnevalesca tra antifascisti e anticomunisti, tutti fuori tempo massimo, così come i fanciulli di Hamelin fecero con il magico pifferaio della fiaba dei fratelli Grimm.
A sentir oggi i media parlar di Renzi pare proprio che non si voglia ancora imparare la lezione. Non esiste il Salvatore. Non almeno in politica, certamente non in sistemi comunque complessi e articolati come quelli di società avanzate, oggi sempre più multietniche. Dopo la parabola di Berlusconi siamo ancora in cerca dell’Uomo Passepartout che ci apra il portone al di là di quel tunnel della crisi da cui non riusciamo più ad uscire?
Temo l’ennesima illusione per una soluzione superomistica, illusione favorita da un’innegabile e a suo modo irrefrenabile tendenza alla “personalizzazione della politica” che connota le liberaldemocrazie di massa nell’epoca della comunicazione digitale e satellitare 24 ore su 24. Spero invece che si arrivi prima o poi a capire che senza strumentazione adeguata anche il più volenteroso e talentuoso degli individui non potrà politicamente “rispondere agli straordinari cambiamenti geopolitici, tecnologici e demografici degli ultimi venticinque anni”, per riprendere le parole di Visco con cui ho esordito. Fuor di metafora: senza una nuova fase costituente, niente macchina dello Stato adeguata alle sfide dell’oggi. E dentro la metafora: senza macchina adeguata, vince sempre Vettel e mai Alonso. Gli altri Stati europei si riprenderanno e recupereranno le prime posizioni, mentre noi continueremo ad arrancare nelle retrovie.
Lascia un commento