di Damiano Palano
Alcuni giorni dopo la rinuncia di Benedetto XVI al ministero petrino, sulla prima pagina di «Repubblica» comparve un breve editoriale, in cui Giorgio Agamben invitava a ritrovare nel clamoroso gesto di Papa Ratzinger una lezione capace di sottolineare la radici più profonde della crisi del nostro tempo. Quella decisione, osservava infatti Agamben, «richiama con forza l’attenzione sulla distinzione fra due principi essenziali della nostra tradizione etico-politica, di cui le nostre società sembrano aver perduto ogni consapevolezza: la legittimità e la legalità». «Se la crisi che la nostra società sta attraversando è così profonda e grave», argomentava, «è perché essa non mette in questione soltanto la legalità delle istituzioni, ma anche la loro legittimità», e non soltanto «le regole e le modalità dell’esercizio del potere, ma il principio stesso che lo fonda e legittima» (G. Agamben, Cosa insegna la rinuncia di Ratzinger, in «la Repubblica», 16 febbraio 2013, p. 1).
L’intervento apparve a qualcuno piuttosto sorprendente, sia perché Agamben non è uso prestare le sue doti di fine intellettuale al commento giornalistico, sia perché la lettura politica del gesto di Ratzinger che emergeva dal breve editoriale poteva risultare forzata, e anche per questo lontana dall’abituale misura di un filosofo che ha fatto dell’allusione alla realtà politica quasi una cifra stilistica. In realtà, la tesi che veniva solo accennata nel commento apparso su «Repubblica» aveva alle spalle una assai più meditata riflessione, le cui coordinate vengono esplicitate nell’opuscolo Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi (Laterza, pp. 68, euro 7.00), diventato nell’arco di alcuni mesi quasi un piccolo best seller. Nel saggio principale compreso nel volume, Agamben torna infatti sulla distinzione fra legittimità e legalità, precisando che i due elementi vanno intesi – a differenza di come sono stati concepiti da buona parte della dottrina dello Stato otto e novecentesca – come «le due parti di un’unica macchina politica, che non solo non devono mai essere appiattite l’una sull’altra, ma devono anche restare sempre in qualche modo operanti perché la macchina possa funzionare» (p. 7). Quando uno dei due elementi prevale sull’altro, si giunge infatti alla degenerazione, esemplificata per un verso dai regimi totalitari del XX secolo, «in cui la legittimità pretende di fare a meno della legalità», e per l’altro dalla condizione delle democrazie contemporanee, nelle quali «il principio legittimante della sovranità popolare si riduce al momento elettorale e si risolve in regole procedurali giuridicamente prefissate», con il risultato che «la legittimità rischia di scomparire nella legalità e la macchina politica è ugualmente paralizzata» (p. 8). Il gesto di Benedetto XVI, secondo Agamben, deve essere allora letto come una messa in questione dello stesso titolo di legittimità della più antica istituzione occidentale: «Di fronte a una curia che, del tutto dimentica della propria legittimità, insegue ostinatamente le ragioni dell’economia e del potere temporale, Benedetto XVI ha scelto di usare soltanto il potere spirituale, nel solo modo che gli è sembrato possibile, cioè rinunciando all’esercizio del vicariato di Cristo» (p. 8).
Agamben sostiene inoltre che la decisione di Ratzinger ha radici profonde, testimoniate innanzitutto dalla scelta di deporre sulla tomba di Celestino V, già nell’aprile 2009, il pallio ricevuto al momento dell’investitura, ma soprattutto dalla sua visione del corpo della Chiesa. In questo senso, Agamben ritrova infatti la chiave interpretativa del gesto in un saggio pubblicato dal giovane Ratzinger nel 1956, nel quale veniva analizzato il concetto di Chiesa delineato nel Liber regularum da Ticonio, un teologo della seconda metà del IV secolo. In sostanza, a differenza di Agostino (che distingue nettamente fra Gerusalemme e Babilonia), secondo Ticonio esiste un’unica città bipartita, una sola città con due lati, uno ‘sinistro’ e uno ‘destro’. Il corpo della Chiesa è dunque unico, ma al tempo stesso bipartito, composto cioè da un aspetto colpevole e da uno benedetto. Se nello stato presente questi due lati del corpo della Chiesa risultano inseparabili, la grande discessio avverrà invece, come scrive Ticonio, alla fine dei tempi: «Questo avviene dalla passione del Signore fino al momento in cui la Chiesa che si trattiene sarà tolta di mezzo dal mistero del male (mysterium facinoris), affinché, quando il tempo è venuto, l’empio sia rilevato, come dice l’Apostolo». Ovviamente il riferimento di Ticonio alla «Chiesa che trattiene» allude alla Seconda Lettera di Paolo ai Tessalonicesi, e in particolare all’oscuro passaggio in cui viene evocato il katechon, la forza «che trattiene», sulla cui identità si sono accumulate in due millenni le più differenti ipotesi (fra l’altro ricostruite di recente anche da Massimo Cacciari in Il potere che frena, Adelphi, Milano, 2013). L’idea di Ticonio era che il katechon non fosse l’Impero romano ma la Chiesa stessa, o meglio il suo carattere bipartito.
Ratzinger, ricorda Agamben, non si limitò a dedicare a Ticonio uno studio giovanile. Nel 2009, Benedetto XVI avrebbe infatti evocato nuovamente Ticonio, in un’udienza generale, definendolo addirittura un «teologo geniale». Il punto è però che Ratzinger – secondo Agamben – concepisce la fine dei tempi in modo diverso dal teologo del IV secolo, ossia non come la fine del tempo, ma come «il tempo della fine», come «la trasformazione interna del tempo che l’evento messianico ha una volta per tutte prodotto e la conseguente trasformazione della vita dei fedeli» (p. 16). In altri termini, la consapevolezza del carattere bipartito del corpo della Chiesa non può risolversi nella passiva attesa della fine dei tempi, «ma deve ispirare in ogni istante la consapevolezza delle sue decisioni nel mondo» (p. 17).
Senza alcun dubbio affascinante, l’interpretazione proposta da Agamben conferma quantomeno, una volta di più, la densità intellettuale – oltre che ovviamente teologica – del lascito che Benedetto XVI consegna alla nostra epoca. Se le argomentazioni sviluppate sul versante teologico dal filosofo richiederebbero un’analisi approfondita, è però anche interessante riflettere sulla dimensione più strettamente ‘politica’ del discorso di Agamben, ossia su quella dimensione che, procedendo dal gesto di Benedetto, viene a mostrare il vulnus che lacera le nostre democrazie. Secondo Agamben anche il corpo delle nostre società è infatti ‘bipartito’, commisto di crimine e onesta, di giustizia e ingiustizia. Ma il punto è che nelle democrazie contemporanee questo problema viene risolto sul piano delle norme: «Anche qui, come è avvenuto per il problema della legittimità, esso viene liquidato sul piano delle norme che vietano e puniscono, salvo a dover poi constatare che la bipartizione del corpo sociale diventa ogni giorno più profonda. Nella prospettiva dell’ideologia liberista oggi dominante, il paradigma del mercato autoregolantesi si è sostituito a quello della giustizia e si finge di poter governare una società sempre più ingovernabile secondo criteri esclusivamente tecnici. Ancora una volta, una società può funzionare solo se la giustizia (che corrisponde, nella Chiesa, all’escatologia) non resta una mera idea, del tutto inerte e impotente di fronte al diritto e all’economia, ma riesce a trovare espressione politica in una forza capace di controbilanciare il progressivo appiattimento su unico piano tecnico-economico di quei principi coordinati ma radicalmente eterogenei – legittimità e legalità, potere spirituale e potere temporale, auctoritas e potestas, giustizia e diritto – che costituiscono il patrimonio più prezioso della cultura europea» (pp. 17-18).
La conclusione del discorso di Agamben fa affiorare nitidamente il cuore di un’interpretazione che spesso il filosofo ama avvolgere in una ragnatela di raffinate digressioni e rimandi eruditi. L’idea che emerge dai passi finali del Mistero del male è infatti sviluppata in modo molto più esteso in Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo (Neri Pozza, Vicenza, 2007), oltre che in altri testi recenti, e consiste nella tesi secondo cui il problema centrale della politica non è rappresentato dalla sovranità, bensì dal governo, e cioè dalla macchina governamentale che il corpo sovrano mette in movimento. Come sintetizza in un saggio recente: «Se oggi ci troviamo di fronte al dominio schiacciante dell’economia e del governo su una sovranità popolare che è stata progressivamente svuotata dal suo senso, ciò è forse perché le democrazie occidentali stanno pagando il prezzo di un’eredità filosofica che esse avevano accettato senza beneficio d’inventario. Il malinteso che consiste nel concepire il governo come semplice potere esecutivo è uno degli errori più carichi di conseguenze nella storia della politica occidentale. Il risultato è che la riflessione politica della modernità si è perduta dietro vuote astrazioni come la Legge, la Volontà generale e la Sovranità, lasciando impensato il problema in ogni caso decisivo, che è quello del governo e della sua articolazione rispetto al corpo sovrano» (G. Agamben, Nota preliminare a ogni discussione sul concetto di democrazia, in G. Agamben et al., In che stato è la democrazia?, Nottetempo, Roma, 2010, p. 12). Il sistema politico occidentale risulta così contrassegnato dall’articolazione dei due elementi eterogenei della razionalità politico-giuridica e della razionalità economico-governamentale, ossia, per un verso, da una ‘forma di costituzione’ e da una ‘forma di governo’. E la politeia si configura stretta da un’anfibolia, le cui implicazioni – osserva ancora Agamben – non sono soltanto teoriche: «È probabile che, finché il pensiero non si deciderà a misurarsi con il nodo e con la sua anfibolia, ogni discussione sulla democrazia – sulla democrazia come forma di costituzione e sulla democrazia come tecnica di governo – rischierà di ricadere nella chiacchiera» (p. 13).
Forse può stupire la fiducia nell’esercizio della filosofia che trapela in filigrana dal discorso di Agamben, quantomeno nel momento in cui riconosce l’origine della crisi delle democrazie contemporanee, come d’altronde dello stesso terrore totalitario, nelle perverse implicazioni di un’eredità filosofica. L’analisi sulle matrici teologiche dell’economia e del governo svolta da Agamben non risulta comunque per questo meno suggestiva e meno meritevole di quell’approfondimento critico che forse – almeno in Italia – le è stato per molti versi negato. Ciò che però rimane in gran parte in questione è invece quale sia la via lungo la quale Agamben ritiene si possa uscire dalla crisi delle democrazie contemporanee, o addirittura se egli ritenga che una via del genere davvero esista. Perché, se i libri di Agamben riescono come pochi altri a ‘decostruire’ le logiche della politica moderna e a mostrare la fondazione ‘tanatologica’ del potere sovrano, nel suo pensiero rimane del tutto in ombra proprio ciò si oppone a quel soverchiante potere. Se talvolta si intravede affiorare, ma solo ai margini, la figura del tutto evanescente dell’«inoperosità» – una forma di rifiuto radicale, estranea a ogni identità, a ogni appartenenza, a ogni comunità – è infatti piuttosto complicato immaginare come una simile «inoperosità» possa assolvere alla funzione che, per ciò che concerne la vita della Chiesa, Agamben attribuisce al gesto di Benedetto XVI. E, soprattutto, appare piuttosto complesso provare a ipotizzare come proprio questa sfuggente «comunità che viene» possa «controbilanciare il progressivo appiattimento su unico piano tecnico-economico di quei principi coordinati ma radicalmente eterogenei – legittimità e legalità, potere spirituale e potere temporale, auctoritas e potestas giustizia e diritto – che costituiscono il patrimonio più prezioso della cultura europea», senza al tempo stesso diventare un soggetto, senza esprimere un potere, e – va da sé – senza riprodurre l’eterna logica degli arcana imperii.
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