di Stefano De Luca
Sul «Corriere della Sera» del 25 novembre è apparso un articolo che rappresenta un esempio dell’Italia che vorremmo, libera dalla tenaglia tra un realismo cinico (che nulla ha a che vedere con la grande tradizione italiana del realismo) e un ideologismo vuoto e retorico (che poi è l’altra faccia del realismo cinico, il suo rovescio simmetrico). L’articolo, firmato dal professor Mauro Agnoletti dell’Università di Firenze, parte dall’ultimo disastro naturale che ha colpito il nostro Paese (la pioggia che ha devastato la Sardegna) per affrontare il tema del territorio italiano fuori dalle solite polemiche nutrite di luoghi comuni che seguono eventi di questo tipo (e che lasciano le cose esattamente come stanno).
L’argomento, ad onta delle apparenze, è di quelli ‘politici’ per eccellenza: il territorio italiano, infatti, non è soltanto uno dei paesaggi più belli del mondo, ma è anche la più preziosa infrastruttura del nostro Paese, uno straordinario (e trascurato) volano di sviluppo economico. Di fronte ai ricorrenti disastri che lo colpiscono la vulgata politico-giornalistica consiste nel gridare esclusivamente allo scempio edilizio, alla cementificazione, ossia alla trasformazione di quote crescenti del territorio nazionale in territorio “non naturale”. Che questo fenomeno esista, che si costruisca con “tragica leggerezza” su terreni inadatti, è un fatto innegabile e al quale bisogna porre rimedio. Ma la naturalità del territorio, ricorda il professor Agnoletti, non è di per sé una garanzia contro i disastri ambientali. La natura segue il suo corso e questo corso non è affatto sinonimo di sicurezza, di vivibilità e di sostenibilità economica per l’uomo. Per raggiungere questi obiettivi da sempre il territorio italiano è oggetto di un tenace e durissimo lavoro di “addomesticamento” di cui gli italiani sembrano essersi scordati. Un addomesticamento che si va sempre più perdendo, come dimostra il fatto che, accanto agli 8.000 ettari all’anno di nuovo cemento, di cui tutti parlano, ci sono i 65.000 ettari di ‘ritorno alla natura’, ossia di vegetazione invadente, di cui ben pochi parlano. Tanto per venire al territorio sardo, le superfici classificate come bosco, dal 1947 a oggi, si sono triplicate. E questo ‘ritorno della natura’ non ha certo impedito il verificarsi di disastri. Le indagini svolte sul disastro delle Cinque Terre, ricorda Agnoletti, dimostrano che le frane del 2011 sono avvenute per il 90% nei terrazzamenti abbandonati, mentre quelli coltivati hanno resistito bene, nonostante pendenze dal 35 al 50%. Cosa significa tutto ciò? Significa che in un Paese come il nostro, ad alta densità di popolazione e – per la gran parte del suo territorio – a bassa rendita agricola, la sicurezza e la vivibilità dipendono da una capillare lavorazione del territorio, da pratiche agricole e forestali.
Il nostro paesaggio naturale, che non ha eguali in Europa, è in gran parte un paesaggio antropizzato. Basta pensare alla bellezza del paesaggio toscano, a questa terra, come scriveva il poeta Mario Luzi, “lavorata palmo a palmo, di padre in figlio, perché fosse un orto” (La Valle, in Dal fondo delle campagne, 1965). Non a caso l’Italia è stata paragonata, sin dal Rinascimento, a un giardino e non all’Amazzonia. E in questa messa a giardino e a orto del territorio gli agricoltori italiani hanno messo a punto, nei secoli, una serie di tecniche fondamentali per adattarsi al cambiamento climatico: tecniche che non richiedono grandi opere. La conclusione della riflessione del professore toscano è che una politica di pianificazione, restauro e manutenzione del paesaggio rurale non è la deriva estetizzante ed elitaria di una società opulenta, ma una scelta utile, pratica, vantaggiosa, che dovrebbe essere portata in Europa, quando si discute di spesa comunitaria.
L’articolo di Agnoletti è l’ennesima riprova che uno dei problemi principali di questo Paese è l’assenza, nelle classi dirigenti, di profondità storica o forse, più semplicemente, di conoscenza della storia italiana (che è anche storia materiale). L’Italia è un paese dimentico di sé, nella cultura, nella lingua, nella gestione del territorio. Perso in una piatta orizzontalità mentale, senza radici e senza profondità, il nostro Paese cerca sempre nel presente, e sempre in qualche altro contesto nazionale, la soluzione ai suoi specifici problemi: che si tratti di modelli istituzionali, di ordinamenti scolastici e universitari o di modelli di sviluppo economico, siamo sempre alla ricerca di un modello da copiare, dimenticando quella sapienza artigianale e artistica del ‘lavoro su misura’ che è da sempre la fonte dell’eccellenza italiana. Al «Corriere della Sera», che ha dato spazio ad una riflessione così seria e così puntuale, si può rivolgere un’unica critica: l’articolo del professor Agnoletti non andava collocato a pagina 31, in taglio basso, ma doveva andare in prima pagina, come articolo di fondo, al posto dell’ennesima riflessione sui protagonisti della nostra politique politicienne. È di queste riflessioni che l’Italia ha bisogno.
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