di Davide Parascandolo

Il Piano d’Azione Comune sul nucleare (Joint Plan Action), siglato pochi giorni fa a Ginevra, segna un importante momento storico verso la riapertura di un canale fiduciario tra Stati Uniti e Iran, fatalmente interrottosi nel 1979. Al tempo stesso rischia però di generare nuove tensioni in un’area geopolitica, quella mediorientale, nella quale Israele avverte la propria sicurezza nazionale sempre più minacciata da dinamiche che esso non sembra più in grado di controllare. La fissazione al 5% della soglia per l’arricchimento dell’uranio (ricordiamo che per usi militari occorre arrivare al 90%), unitamente ad altri provvedimenti che congelano l’attivazione di ulteriori siti e che permettono agli ispettori AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) di rendere più trasparente lo sviluppo del programma nucleare iraniano, non è certo sufficiente a placare le ansie di Tel Aviv, che ne auspicherebbe il completo abbandono.

Se per il presidente iraniano Rohani l’accordo appare come uno strumento atto a frenare gli antagonismi interni e un primo passo verso la ricostruzione del tessuto economico grazie all’alleggerimento delle sanzioni, permettendo altresì all’Iran di potersi presentare come il fautore di un nuovo assetto regionale, gli Stati Uniti sperano con questo allineamento strategico di poter gettare le basi per un nuovo equilibrio di potere sciita che funga da baluardo contro la penetrazione cinese in Asia Centrale e che permetta loro di essere percepiti con minore ostilità in buona parte del mondo islamico. Tuttavia, Israele e Arabia Saudita sono due pilastri essenziali della politica mediorientale statunitense, e un’eccessiva apertura verso Teheran potrebbe rimescolare le alleanze, con Russia e Cina pronte ad approfittarne. In aggiunta, la stessa decisione di non attaccare il regime siriano di al-Assad ha ulteriormente indispettito i due principali alleati in Medio Oriente. Pertanto, sebbene gli Stati Uniti stiano cercando di rimodulare i rapporti di potere nell’area per acquisire una maggiore influenza, devono fare molta attenzione a non tirare troppo la corda.

Per quanto riguarda gli israeliani, essi rimangono fermamente convinti che la superiorità militare nell’area debba essere mantenuta con ogni mezzo al fine di garantire la propria stessa sopravvivenza. Il loro monopolio sul nucleare regionale rappresenta il perno strategico della politica di sicurezza ed è fondamentale per superare i limiti imposti da una strategia militare tradizionale basata sui fattori della superiorità quantitativa, dello spazio geografico e del tempo. In effetti, fino ad ora, la capacità di colpire con armi atomiche ha permesso ad Israele di esercitare una formidabile deterrenza nei confronti di attacchi su larga scala da parte dei paesi limitrofi. Chiaramente, un Iran nuclearizzato rimetterebbe tutto in discussione e accentuerebbe gli svantaggi geostrategici israeliani derivanti da una ridotta estensione statuale e dalla concentrazione della maggior parte della popolazione lungo la fascia costiera, elementi che permetterebbero ad una singola testata atomica di produrre effetti catastrofici all’interno dello Stato ebraico. Occorre peraltro tener presente il senso di accerchiamento accentuatosi all’indomani della deflagrazione delle primavere arabe, dalle quali è scaturito un quadro geopolitico estremamente instabile, essendo inoltre venuto meno il principale alleato nell’area, il rais egiziano Mubārak. Non sorprende quindi che Israele reagisca con durezza, e la possibilità che il sionismo radicale possa condurre a scelte azzardate non è perciò così remota.

Tel Aviv può percorrere due strade: seguire la cosiddetta dottrina Begin dell’attacco preventivo o accettare l’equilibrio della mutua deterrenza in stile guerra fredda, ma entrambe sono rischiose e palesano le evidenti limitazioni geostrategiche dello Stato d’Israele. Senza contare che un eventuale attacco sarebbe pressoché impossibile da attuare in assenza dell’appoggio statunitense, ed è presumibile che esso provocherebbe un incendio in tutto il mondo islamico. Peraltro, non sarebbe comunque sufficiente ad evitare la nuclearizzazione dell’area.

Ma una sponda inaspettata potrebbe arrivare proprio dall’Arabia Saudita. Infatti, le pretese egemoniche di Riyad in Medio Oriente non rendono accettabile lo sviluppo nucleare iraniano. I punti di attrito tra Iran e Arabia Saudita sono molti, a cominciare dalla struttura interna. Mentre l’Iran è una repubblica sciita, la monarchia saudita è la custode dell’Islam sunnita ed è fortemente legata agli ulema wahabiti, dovendo contenere sul suo stesso territorio i dissidi con le enclaves sciite, appoggiate e fomentate proprio da Teheran. Si comprende allora come la proiezione esterna di tali divergenze si declini attraverso un’accesa competizione per acquisire il ruolo di potenza egemone nel Golfo Persico. Curiosamente quindi, Israele e Arabia Saudita potrebbero allinearsi su alcune importanti linee strategiche: dalla comune volontà di contenere l’ascesa iraniana per mantenere lo status quo nella regione, all’obiettivo condiviso di rovesciare definitivamente il regime siriano; dal sostegno attivo al governo militare in Egitto (si rammenti la forte ostilità saudita nei confronti di movimenti politici quali Hamās, di fatto vicino all’Iran, e i Fratelli Musulmani), al desiderio di entrambi i paesi di ridimensionare il crescente ruolo geopolitico esercitato dalla Turchia. In definitiva dunque, il paradosso di un asse sionista-musulmano non appare poi così impossibile. Come a dire che le vie del Signore, comunque lo si voglia chiamare, sono infinite.

 

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