di Danilo Breschi

Oltre a chiedersi cosa renda prevalente un’opinione, esiste un’altra questione problematica, su cui sovente si sorvola: non tutti i cittadini hanno opinione su tutto, anzi, accade piuttosto il contrario, ché pochi cittadini hanno opinioni su alcune questioni. Non solo: un’opinione è per definizione una “risposta” fornita ad una “domanda” in una situazione data, e questa situazione è di solito creata dai media, almeno se parliamo di democrazie contemporanee.

Ulteriore questione è quindi la seguente: qual è l’effettivo livello di informazione che alimenta le opinioni dei pubblici di massa? Come si fa ad accertare grado e profondità di quel che l’opinione pubblica sa, non sa, o sa poco e male? Il problema di fondo resta capire quel che giunge, sotto forma di “informazione”, al cittadino. È qui che la democrazia di oggi, la sua pratica ancor prima della sua teoria, mostra il proprio punto di più acuta e preoccupante debolezza.

In altri termini, non è soltanto un problema di quanto sapere è distribuito tra la popolazione dei governati, ma anche, forse soprattutto, se quel sapere è vero, autentico, ovvero si riferisce a come “le cose stanno veramente”, oppure poggia su una discreta dose di inganno e falsità, o anche solo parzialità (e il quantum dipende dalle esigenze del manipolatore mediatico di turno). Se si trattasse solo di curare la disinformazione intesa come scarsa propensione ad acquisire dati e visioni della realtà locale, nazionale e internazionale del proprio tempo, la vecchia “paideia” di stampo illuministico potrebbe essere una via percorribile ed efficace, almeno in parte. Occorrerebbe agire sulle tradizionali agenzie di educazione, istruzione e formazione delle persone, scuole e università anzitutto, anche se resterebbe il solito, annoso interrogativo: “quis custodiet ipsos custodes”?

Detto altrimenti: chi garantisce che le istituzioni deputate all’istruzione ed educazione dei cittadini siano autonome e oneste agenzie che invitano alla critica ampia e spregiudicata, consentendo quindi anche che si ponga sotto esame severo e potenzialmente sanzionatorio quelle stesse istituzioni formative?

Quesito non da poco, ma certamente un concreto impegno sul fronte dell’aumento della scolarizzazione e dei livelli di conoscenza delle giovani generazioni potrebbe dare un contributo alla maturazione di quella opinione pubblica reclamata dalla teoria della democrazia. Insomma, non è sufficiente dire che il livello di informazione è una funzione del livello di istruzione. Non più, almeno, e non solo perché abbiamo negli ultimi decenni a che fare con pubblici di massa, molteplici, trasversali e quantitativamente ingestibili.

C’è da tenere anzitutto conto del fatto che anche l’informazione è un “costo”. Chi si mantiene informato su un determinato ambito, non è detto affatto lo sia in un altro, tanto meno in tutti gli altri. Anzi, accade il contrario: più ti informi a proposito di un ambito, meno hai tempo per informati sugli altri. E poi, parlando di opinione pubblica, qual è l’ambito di cui stiamo parlando, che deve essere oggetto di esame, valutazione e critica? È quel che un tempo si chiamava “res pubblica”, ciò che tocca tutti, in misura variabile ma certa. E oggi le “cose” che ci toccano, che ci riguardano, o dovrebbero riguardarci, sono davvero tante, estendendosi a campi nei quali l’istruzione media, ma anche quella elevata, della stragrande maggioranza delle cittadinanze democratiche. Davvero impossibile “stare dietro a tutto” e su tutto avere qualcosa di più di un’opinione debole e casuale, di una risposta data solo perché qualcuno – solitamente i media, e la televisione in primis – ci ha rivolto una domanda in proposito tramite le apposite società di sondaggi e di rilevazione dell’opinione “del pubblico”.

Bisogna però ricordare che quel che conta è l’autonomia della pubblica opinione, non il contenuto, di qualità positiva o negativa, di quella stessa opinione. Il sistema politico può funzionare anche se la qualità dell’opinione è negativa. L’elezione è comunque assicurata nella sua libertà di espressione, perché con il voto i cittadini non decidono le questioni, ma decidono chi sarà a deciderle.

Se quindi non sottolineiamo l’esigenza di avere una democrazia “partecipata” e “partecipativa” è chiaro che l’autonomia è sufficiente. Ma se al decidere dei rappresentanti vogliamo sostituire il decidere dei rappresentati, allora diventa importante anche il contenuto dell’opinione. Lo vediamo, ad esempio, ogni volta che gli italiani sono chiamati ad esprimersi mediante un referendum, sia pure soltanto in senso abrogativo, com’è previsto dalla nostra normativa costituzionale. Su questioni come l’energia nucleare o la procreazione assistita, così come tanti altri possibili quesiti posti a tutti noi quotidianamente dalla nostra modernità tecnologica, risulta estremamente difficile avere qualcosa che sia simile ad un giudizio informato, dotato di conoscenze adeguate e comprovate, frutto insomma di un sapere oggettivo e disinteressato (nel senso che non è “pregiudicato” da appartenenze e tornaconti materiali).

Una democrazia referendaria non si regge sulla semplice opinione, ma abbisogna del sapere, della competenza conoscitiva. E qui si rivela tutta la difficoltà di rendere concretamente operativo ed efficace un simile sistema politico-decisionale date l’inevitabile parzialità e settorialità dei saperi di ciascuno di noi, cittadino di questo o quello Stato-nazione. In ogni caso, la costruzione di qualsivoglia sapere richiede l’acquisizione di informazioni, ed oggi la trasmissione delle notizie è appannaggio della televisione e, in misura crescente, di Internet. E qui sorge un problema non eludibile per una aggiornata teoria della democrazia.

Solo per restare nell’ambito del mondo accademico italiano, è da oltre vent’anni che Giovanni Sartori mette in guardia dagli effetti deleteri che sui sistemi liberal-democratici può produrre la televisione. L’allarme non è nuovo né è rimasto isolato, ma il politologo fiorentino, forte della ventennale esperienza di insegnamento e soggiorno negli Stati Uniti, Paese ancora all’avanguardia nel campo dell’innovazione tecnologica, già nel 1989 ammoniva sul fatto che “la televisione sta cambiando l’uomo e sta cambiando la politica” e che “la prima trasformazione ricomprende la seconda”. Osservazione, quest’ultima, degna di particolare attenzione, perché dietro ogni agire politico c’è sempre un tipo umano ben determinato, e il problema politico per eccellenza è stato e sempre sarà quello di realizzare una duratura e feconda convivenza pacifica tra esseri umani diversi e “insocievolmente socievoli”, per dirla ancora una volta con Kant.

(continua)

 

Commento (1)

  • a.v.
    a.v.
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    Alcuni commenti:
    1. il problema della competenza settoriale non è solo dei comuni cittadini ma anche dei politici stessi: seguendo questa linea di ragionamenti si arriva alla repubblica dei filosofi di Platone ovvero allo stato tecnocratico ove ne politici ne cittadini sono qualificati per prendere decisioni ma soltanto gli esperti.
    2. se il popolo non è competente nel giudicare in certo ambito non capisco perche debba essere piu competente nello scegliere chi debba decidere in quell’ambito al suo posto
    3. il fatto che il referendum dia potere alle masse di decidere direttamente sulle leggi, non è in contraddizione con il fatto che il loro giudizio resta pur sempre etero diretto da dei (autentici o presunti tali) competenti, solo che questi non sono leader di un sistema corporativistico di partiti, bensi opinion makers appartenenti al libero mercato dell’opinione pubblica

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