di Simone Ros
“Chi si batte oggi in favore della SPÖVP in nome della stabilità, si batte in realtà per un programma che prevede la destabilizzazione a lungo termine del paese. Non voler correre assolutamente alcun rischio è a volte una strategia estremamente rischiosa, non solo in economia”. A scrivere queste parole di fuoco non è un emulo austriaco del nostro ben più sbracato Beppe Grillo (la geniale crasi “SPÖVP” rimanda indirettamente alla famosa formula “pdmenoelle” del capopopolo genovese). L’autore è invece Christian Ortner, a capo di un omonimo blog ed editorialista del paludato quotidiano Die Presse. La data è indicativa: 18 ottobre 2013. Quel venerdì di quasi due mesi fa le trattative per l’ennesimo governo di Grande Coalizione, innescate dalle ambigue elezioni di fine settembre, cominciavano già ad essere additate come un ipocrita teatrino. Il peggio doveva ancora venire, per parafrasare una nota canzone. Tracciare un quadro comprensibile dell’attuale situazione politica austriaca appare un compito quasi impossibile. Il groviglio avvelenato di accuse reciproche, ventilate ipotesi di rovesciamento del tavolo, diatribe sotterranee e frustrazione dell’opinione pubblica sembra quasi mal adattarsi alla situazione idillica normalmente associata alla placida Repubblica alpina. L’assenza dell’elettroshock della crisi economica, che altrove ha provocato stravolgimenti epocali ed alleanze inimmaginabili, ha determinato il mantenimento ad oltranza di uno status quo pazzotico, inconcludente e desolante. Cerchiamo di delineare la caotica linea del tempo di questo autunno di passioni distruttive.
Un assaggio di quello che sarebbe accaduto in questi mesi lo forniva, non proprio involontariamente, il liberale Der Standard già lunedì 30 settembre, a seggi appena chiusi.”La coalizione si assottiglia, la destra cresce” proclamava a tutta pagina il quotidiano rosato di Oscar Bronner. È proprio quel pericoloso assottigliamento (socialisti in testa ma sotto il 30%, popolari al 24%) che scatenò la fantasia degli analisti politici nelle settimane successive. Qualcuno affermava che il voto aveva sonoramente bocciato la coalizione uscente (la mostruosa entità bicefala “SPÖVP” denunciata da Ortner) e che era ora di qualcosa di nuovo. La destra iper- nazionalista di Strache, arrivato splendidamente terzo, si mostrava disponibile a stringere patti col diavolo pur di andare al governo. Anche con i socialisti, nemici giurati in nome dell’antifascismo. Impossibile lasciare da parte l’arzillo miliardario anti-casta Stronach. Ad un anno di distanza dalla sua trionfale discesa in campo nella modesta cornice del palazzo di Schönbrunn, l’austro-canadese vedeva infatti il suo deludente 6% cucito assieme al 5% dei Neos, fautori della rivoluzione rosa. La piattaforma liberale, all’esordio in Parlamento, avrebbe potuto fungere da stampella per un eventuale governo dei blu (popolari), ancora scottati dalla devastante coalizione con la destra haideriana ai tempi di Schüssel. Speculazioni, pura fantapolitica. Mentre gli editorialisti si sbizzarrivano mescolando i colori partitici in ardite formule, i rossi e i blu, con il benestare del Presidente della Repubblica, aprivano le trattative per il gabinetto Faymann II. Werner Faymann, cancelliere socialista, e il suo Vice Spindelegger, popolare, riprendevano le redini, sgombrando il campo da ogni ulteriore illazione cromatica. Nel frattempo, il panorama si andava normalizzando: i Verdi, chiusi nell’orticello del loro modesto 11%, si riadattavano al ruolo loro più congeniale di opposizione barricadera. Strache iniziava a flirtare con la destra euroscettica europea, pianificando la marea nera che invaderà Strasburgo nel 2014. Il destino cinico e baro giocava un brutto scherzo a Stronach, già profondamente disamorato della sua gracile creatura politica: non solo liti a non finire a livello regionale, ma anche l’onta di rappresentare plasticamente in Parlamento i privilegi inaccettabili di un certo modo di fare politica. Monica Lindner, ex capo della televisione pubblica ORF e da sempre vicina ai popolari, dava infatti fuoco alle polveri abbandonando il gruppo parlamentare stronachiano (con cui era stata eletta) per planare placidamente nel gruppo misto. Il caso ha suscitato un’ondata di indignazione, scatenando la furia della stampa. Resoconti delle sue amicizie altolocate, del suo vorace carrierismo e della generosissima pensione incassata ogni mese hanno trasformata la malcapitata “Moneyca” in un emblema della casta, diremmo noi in Italia. La rinuncia ufficiale al seggio è arrivata, curiosamente, lo stesso giorno del voto sulla decadenza di Silvio Berlusconi. Mentre il tycoon brianzolo richiamava i suoi alla lotta, il disgustato Stronach volava in Canada cedendo il suo seggio ad un’ex Miss Mondo. La sua avventura politica, partita con i migliori auspici, si è (quasi) pressoché conclusa nel più desolante dei modi.
Sullo sfondo del caso Lindner, i partiti di governo si sedevano trionfanti al tavolo verde dei negoziati, sotto lo sguardo bonario del Presidente Fischer. Se in Italia è stato Giorgio Napolitano a tenere a battesimo le larghe intese Letta-Alfano, a Vienna è scoccata “L’ora del Presidente” (titolo della Presse di sabato 5 ottobre). Il sostenitore più inflessibile e intransigente di un nuovo patto SPÖ-ÖVP è infatti Heinz Fischer, palesemente inorridito da qualunque ipotesi sperimentale. Dall’Hofburg l’invito è chiaro: negoziate quanto volete, ma prima di Natale il nuovo governo deve essere in carica. Una posizione discutibile, che ha suscitato l’indignazione e la sferzante ironia di autorevoli commentatori. Si è parlato di avversione al rischio e addirittura di una sorta di visione pigramente abitudinaria della cosa pubblica. A complicare il cammino tortuoso dei negoziati, una bomba atomica inaspettata: un buco di bilancio precedentemente “dimenticato” dal Cancelliere in carica. Nel giro di pochi giorni “il buco”, in tutto il suo terribile valore iconico, ha monopolizzato le prime pagine dei giornali. Si parla di una cifra monstre (più di 18 miliardi di euro fino al 2018) che impedirebbe il sospirato raggiungimento del pareggio di bilancio e imporrebbe, fin da subito, inaspettate misure di austerity. Ad intricare ulteriormente il quadro, la lotta senza quartiere con il sindacato degli insegnanti, che minaccia lo sciopero se la riforma dell’istruzione verrà varata dal governo (uscente) senza la sua approvazione. Queste poche battute rendono chiaramente l’idea del terreno minato sul quale si discute attualmente il futuro governo austriaco. Il duo Faymann-Spindelegger, archiviate le schermaglie della campagna elettorale, continua imperterrito i negoziati a porte chiuse, inscenando un patetico rimpallo di responsabilità per il famigerato buco di bilancio. La testa della Ministra delle Finanze (popolare) uscente, la combattiva Maria Fekter, è già saltata. Le istanze di rinnovamento portate avanti dall’opposizione si sono pacificamente incanalate nelle consuete dinamiche parlamentari o mestamente arenate nelle secche della litigiosità e dell’inconcludenza (vedi la fine ignominiosa del Team Stronach). Solo, nel maestoso Palazzo Imperiale che fu reggia dei Kaiser d’Austria-Ungheria, il vigile Fischer attende di battezzare l’ennesimo governo di Grande Coalizione, unico garante di stabilità. Rainer Nowak, opinionista di punta della Presse, ribatte sarcastico: l’Armata Rossa non è alle porte, occorrerebbe un progetto preciso e di lungo termine, non l’eterna riedizione dello status quo sotto forma di rimpasto ministeriale. Per Fischer invece, come ha dichiarato ai bambini accorsi ieri nel suo ufficio per l’accensione dell’albero, un nuovo governo sarebbe il miglior regalo di Natale.
Lascia un commento