di Alessandro Campi

untitledIl grande piano sul lavoro presentato in bozza da Matteo Renzi pone non solo delle questioni tecniche relative alla sua realizzabilità (con quali costi e risorse? in che tempi? per raggiungere quali obiettivi in particolare? attraverso quali strumenti?), ma anche un problema politico relativo a chi dovrebbe toccare la responsabilità di mettere in opera un progetto tanto ambizioso. A colui che l’ha ideato e che intende farne una bandiera programmatica per la sinistra di domani o ad un governo con le caratteristiche di quello attualmente in carica, sempre più traballante e sostenuto in Parlamento da una colazione assai eterogenea? A Renzi, se mai avrà l’occasione di governare l’Italia grazie al voto popolare, o a Letta, che si trova a guidare l’esecutivo su scelta del capo dello Stato più che del suo partito?

Il destino dell’attuale legislatura, come ormai si è capito, è per intero nelle mani del Pd e degli “uomini nuovi” che ne rappresentano – dopo l’uscita di scena della vecchia guardia comunista e cattolico-democratica– il nuovo corso, pragmatico e post-ideologico, libero ormai dalle antiche appartenenze ma ancora incerto quanto al suo punto d’approdo. La possibilità che i due trovino un’intesa temporanea o un accordo di convivenza, sebbene auspicata da molti e presentata come possibile persino dai diretti interessati, appare in verità sempre più difficile e remota, ma per ragioni che ancora una volta sono politiche e poco hanno a che vedere con le asprezze caratteriali e le incomprensioni di cui hanno dato reciprocamente prova in questi mesi. Si parla di un patto che, se sottoscritto, potrebbe allungare la vita del governo di almeno un anno ed evitare elezioni anticipate nella tarda primavera di quest’anno: ma l’eventuale successo di Letta darebbe a quest’ultimo un’ottima ragione per continuare nel suo lavoro sino alla fine della legislatura, il suo eventuale insuccesso nell’azione di rilancio dell’economia italiana avrebbe un riflesso elettorale negativo su Renzi e ne indebolirebbe l’immagine e lo slancio rinnovatore. Che patto può nascere se questa è l’alternativa che si profila?

Il fatto è che dove comincia l’interesse dell’uno finisce il vantaggio dell’altro. Le tensioni di questi giorni tra i rispettivi seguaci – a colpi di dichiarazioni, battute allusive e minacce larvate – sono dunque solo lo specchio di una divaricazione obiettiva: Renzi vuole votare, Letta vuole durare, il primo intende mettere il pratica le sue idee con un governo che sia politico al cento per cento, il secondo non intende farsi dettare le linee d’azione dal suo segretario di partito nonché diretto competitore e comunque difficilmente potrebbe realizzare le indicazioni di quest’ultimo (in tema di lavoro o diritti civili) con ministri che sono per metà tecnici e per metà appartenenti a schieramenti politici con i quali l’alleanza e la collaborazione è per definizione momentanea e precaria.

In realtà, nel dualismo tra Renzi e Letta c’è anche da considerare un elemento per così dire sistemico o strutturale. Con l’elezione del primo alla guida del Pd, si è riproposto un dualismo per così dire istituzionale che era tipico della Prima repubblica e al quale, nella cosiddetta Seconda, non eravamo più abituati: quello tra il segretario del partito e il capo del governo. Per di più, in questo caso, il primo appare forte di una designazione dal basso, attraverso il meccanismo delle primarie, che al secondo, giunto a Palazzo Chigi non per aver vinto le elezioni ma in virtù di un accordo parlamentare ispirato dal Quirinale, manca del tutto e lo rende più debole dinnanzi all’opinione pubblica.

La sola carta che Letta ha potenzialmente in mano per resistere alle pressioni dei supporter renziani è rappresentata dai risultati del suo governo, che dopo l’uscita dalla maggioranza di Berlusconi si era detto che sarebbe stato più coeso politicamente e dunque più incisivo sul versante delle riforme. Ma è accaduto il contrario. Nelle ultime settimane l’esecutivo si è sfilacciato e ha cominciato a perdere pezzi (con le dimissioni di Fassina); la sua componente tecnico-burocratica ha dato prove di sé non propriamente brillanti (da ultimo il pasticcio sugli insegnanti che ha coinvolto Saccomanni e la Carrozza); mentre diversi ministri del nuovo centrodestra (Alfano, Lupi, Di Girolamo) sono pesantemente finiti nel mirino delle opposizioni. Dinnanzi all’accumularsi di leggerezze e problemi persino il Capo dello Stato, che di questo governo è stato l’ideatore e resta il garante, sembra essersi fatto scettico e prudente circa la sua possibile sopravvivenza.

Il 2014 degli italiani è cominciato con l’annuncio di tasse più salate sulla casa e di rincari sostanziosi sui servizi e le forniture energetiche. Quanto alla possibilità entro pochi mesi di una ripresa produttiva ed occupazionale, pure più volta annunciata da questo governo, Mario Draghi è stato perentorio: l’uscita dalla crisi, ha detto, sarà “debole, modesta e fragile” nell’eurozona sino a tutto il 2015, figuriamoci dunque in Italia, che non cresce da oltre un decennio e che continua a perdere ogni mese posti di lavoro.

C’è chi dice che le elezioni anticipate sarebbero un disastro, per di più senza una nuova legge elettorale. Ma per come è ridotta l’Italia non è forse peggio tenere in vita un governo strutturalmente debole, costantemente sotto attacco dei suoi stessi sostenitori e che qualcuno, con una bizzarria costituzionale, vorrebbe addirittura “a scadenza predeterminata”? Forse sarebbe il caso che nel Pd, risolta con l’affermazione di Renzi la partita interna, si decidesse una linea coerente sull’esecutivo. Sostenerlo in modo leale, sperando che combini qualcosa da qui alla fine della legislatura, o farlo cadere per dare quanto prima la parola agli italiani?

 * Articolo apparso su “Il Messaggero” (Roma) e “Il Mattino” (Napoli) del 10 gennaio 2014.

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