di Aresh Vedaee
Nel dibattito politico corrente, la crisi dei partiti e l’ascesa del M5S hanno accresciutol’interesse dell’opinione pubblica verso il concetto di “democrazia partecipativa”. Essaconsiste in una idea di regime politico che affianca a (o addirittura sostituisce) forme didemocrazia rappresentativa, basata su partiti, forme di democrazia diretta, sul modello delreferendum, inteso non più solo in senso abrogativo ma anche propositivo. La speranza che essa sottende è in fondo quella di riparare alle disfunzionalità croniche del sistema politico vigente in Italia con una rinnovamento radicale della sua forma di governo.
Nel presente articolo si intende avanzare alcune riflessioni, non tanto sulle proposte effettive di “democrazia partecipativa” rese popolari dal movimento politico guidato da Beppe Grillo, bensì sui timori che essa suscita in molti commentatori con l’obiettivo di formulare in modo più chiaro la natura di un problema, piuttosto che aderire a una soluzione o all’altra del medesimo.
Prenderò spunto dalle perplessità che Danilo Breschi ben sintetizza in un articolo pubblicato in questa stessa rivista online “Democrazia e informazione, tra passato e futuro. Ma quale futuro? /2“. A ben vedere, esse fanno eco a quelle preoccupazioni avanzate agli albori della storia della democrazia e del pensiero politico occidentale, ben più di 2000 anni fa, da due filosofi ateniesi, Socrate e Platone, e che ho cercato di riproporre sommariamente in un mio precedente articolo “Il dilemma di Platone: democrazia VS tecnocrazia“, cui rimando il lettore.
Il fulcro delle preoccupazioni di Danilo Breschi consiste nell’idea che “una democraziareferendaria non si regge sulla semplice opinione, ma abbisogna del sapere, dellacompetenza conoscitiva” perché “se al decidere dei rappresentanti vogliamo sostituire ildecidere dei rappresentati, allora diventa importante anche il contenuto dell’opinione: es. su questioni come l’energia nucleare o la procreazione assistita, così come tanti altri possibili quesiti posti a tutti noi quotidianamente dalla nostra modernità tecnologica, risultaestremamente difficile avere qualcosa che sia simile ad un giudizio informato, frutto insomma di un sapere oggettivo e disinteressato”.
La ragione della difficoltà dipenderebbe almeno da tre fattori: innanzitutto i limiti cognitiviumani, dato che l’aggiornamento delle conoscenze in campo politico come in ogni altrocampo richiede dispendio di energie, attenzione e tempo – risorse alquanto limitate – tanto più oneroso quanto più vario e articolato è l’ambito esaminato, e limitato il livello di istruzione individuale, al punto da poter diventare insostenibile per un comune cittadino. Il secondo fattore è la complessità dello scenario politico moderno, caratterizzato da una sempre più rapida e cospicua integrazione tra tecnologia e processi sociali, tale da generare un flusso di informazioni che eccede inevitabilmente e significativamente le capacità di assimilazione ed elaborazione del cittadino medio. Il terzo fattore è l’aspetto manipolatorio che processi di scolarizzazione e comunicazione mass-mediatica possono promuovere in modo insidioso e difficile da filtrare.
Ora, il problema della “competenza conoscitiva”, sembrerebbe minare l’affidabilità dellacapacità legiferativa delle masse secondo il principio della “democrazia partecipativa” erendere preferibile una “democrazia rappresentativa”: quest’ultima infatti, facendo leva sulprincipio della delega, consentirebbe di votare democraticamente rappresentanti politiciorganizzati in partiti (i cosi detti “professionisti della politica”) con il compito di legiferare sumaterie estremamente complesse in modo più competente dei cittadini comuni, lasciando a questi ultimi il più sostenibile compito di controllare e a ratificare o meno l’operato dei primi. In breve, la democrazia rappresentativa riuscirebbe a coniugare “competenza” e “democrazia” meglio di quanto riesca a fare “la democrazia partecipativa”.
Se questa è la conclusione, qui di seguito alcuni ulteriori spunti di riflessione:
– Se in generale la complessità dello scenario politico può essere tale da eccedere lecapacità cognitive del cittadini comuni mediamente istruiti al punto da richiedererappresentanti politici delegati affinché si dedichino in modo professionale alla funzionelegiferativa, in particolare lo scenario politico moderno può essere tale da rendereinsoddisfacente persino la competenza dei rappresentanti politici comuni, e quindi necessaria l’assegnazione del potere legiferativo a degli esperti di settore non piu legittimati per via democratica bensì secondo processi di selezione tecnica non-democratica, come avviene attualmente per gli esponenti del corpo giudiziario o come avviene in casi di emergenza quando si richiede l’intervento di luminari accademici. Come ho ricordato nel mio precedente articolo è precisamente il problema della competenza politica ad aver spinto Platone ad elaborare un modello politico alternativo a quello democratico e che potrebbe essere definito tecnocratico nella misura in cui i filosofi legiferatori sono equiparabili agli esperti di settore non democraticamente eletti, entrambi selezionati secondo criteri di merito e competenza non democratici.
Del resto, come anche la storia più recente insegna, sono i politicidemocraticamente eletti che con il ricorso di routine a commissioni parlamentari e a presunti “governi tecnici” debbono affidarsi o delegare a loro volta degli esperti in senso tecnico per poter legiferare con successo (soprattutto quando si tratta di “leggi impopolari”), oppure con risultati tanto più insoddisfacenti quanto meno vi ricorrono (leggere in merito La legge oscura di Michele Ainis).
– Se i cittadini comuni non sono tanto conoscitivamente competenti quanto un eventualerappresentante di partito nell’assolvere al compito legiferativo, resta poi difficile capire sucosa si basi la convinzione che tale competenza risulta tuttavia soddisfacente quando si tratta di supervisionare le competenze dei rappresentanti politici. E questo per almeno tre ragioni: la prima, è che l’iter dell’attività legiferativa è del tutto poco trasparente per il comune cittadino (non c’è modo di accertare facilmente né puntualmente chi vota cosa e per quale scopo fra i singoli rappresentanti). La seconda è che non ci sono indicatori di sintesi pubblicamente accessibili e difficilmente manipolabili per misurare la performance dei rappresentanti secondo un certo standard di oggettivita. La terza è che l’apparato mass-mediatico con tutta la sua forza manipolatoria è indubbiamente uno dei principali strumenti d’uso e abuso dei rappresentanti politici nella gestione del consenso democratico.
– Se i cittadini comuni non sono competenti nel legiferare, o lo sono in misura minore quanto più complesso e tecnico è il settore su cui legiferare, ciò è un fatto che i cittadini comuni mediamente istruiti di una democrazia basata sulla libera circolazione delle informazioni avvertono da sempre. Ed è proprio tale consapevolezza che elicita nelle masse un processo spontaneo di aggregazione del consenso attorno alle idee professate dai più popolari “opinion maker” (vedi Beppe Grillo). Per cui anche quando sia il cittadino comune ad avere il potere di legiferare, questo diventerebbe effettivo solo nel caso in cui la sua opinione si allineasse alle idee degli opinion maker più influenti (cioè capaci di aggregare maggiore consenso) del mercato libero delle opinioni. Sicché il problema della competenza del cittadino comune si ridurrebbe al problema della competenza degli opinion maker la cui valutazione per il comune cittadino puo’ essere tanto problematica quanto quella del rappresentante di partito (ma anche altrettanto tollerabile se l’opinion maker è un vero esperto o divulga le opinioni di un vero esperto), fornendo tuttavia un margine di flessibilità e un incentivo alla responsabilizzazione civica del cittadino di cui l’offerta politica di una democrazia rappresentativa certamente manca.
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