di Simone Ros

austria“Le grandi coalizioni sono la normalità in Austria. Non vedo perché ci dovremmo stupire” mormora perplessa una studentessa ventenne della Stiria. “Purtroppo questo significa che non cambierà mai nulla” conclude, rassegnata. La connessione tra prolungamento della Grosse Koalition alla viennese e perenne stasi politica e decisionale sembra quasi automatica, all’ombra del Duomo di Santo Stefano. Una prospettiva che fa raggelare chiunque in Italia crede ancora (con una buona dose di ottimismo) alle concrete possibilità di cambiamento finora goffamente dispiegate dal governissimo Letta-Alfano. Soprattutto se il varo del nuovo governo, scaturito dalle elezioni di settembre e da un travagliato processo negoziale tra socialdemocratici e popolari, viene accompagnato da proteste di studenti indignati che gridano scomposti all’indirizzo del Presidente della Repubblica Heinz Fischer: la brutale soppressione del Ministero della Ricerca ha infatti suscitato aspre polemiche nelle università. La parallela immissione di alcuni volti freschi nella grigia foto di famiglia del governo (molti ministri sono stati riconfermati) non è bastata a neutralizzare un frustrante senso di dejà vu: la scelta del ventisettenne Sebastian Kurz come Ministro degli Esteri più giovane della Repubblica è stata una mossa apprezzata, ma con scarse ripercussioni pratiche. Ecco quindi che il Cancelliere socialdemocratico uscente Werner Faymann, artefice di una vittoria solida ma non esaltante, appare improvvisamente un semplice gestore dell’esistente. Il Presidente Fischer, grande sponsor della Grosse Koalition, un politico di lungo corso ingabbiato in uno schema mentale da ripetere all’infinito, senza nulla concedere all’inventiva. Il gabinetto Faymann II decolla quindi con scarso entusiasmo, come qualcosa di ineluttabile e inevitabile. “Cinque anni possono essere molto lunghi” sospira il quotidiano Die Presse (14 dicembre 2013, due giorni prima del giuramento). La consueta luna di miele post-elezioni si è già convertita in benevola rassegnazione.

È la stessa Presse, sabato 11 gennaio 2014, ad accantonare l’analisi della routine governativa (un paio di nuove tasse su alcolici, tabacco e automobili) per focalizzarsi invece su un tema di più largo respiro: il futuro della socialdemocrazia in Europa. Il titolo all’intervista in prima pagina al Cancelliere socialdemocratico è già una dichiarazione di intenti: “Lo status quo è la sua visione”. La SPÖ, il partito socialdemocratico/socialista austriaco, compie 125 anni. La situazione non potrebbe essere più rosea: è il primo partito nelle urne anche se con un risicato 28% ed è stato dunque in grado di umiliare gli ambiziosi partner di governo (i popolari, al 24%) e di arginare la marea nera dell’estrema destra xenofoba (oltre il livello di guardia del 20%). Il Cancelliere Faymann governa dal dicembre 2008 e se porterà a termine la legislatura (2018) arriverà a sfiorare il record di Bruno Kreisky, nume tutelare e mito della socialdemocrazia austriaca (dieci anni contro tredici). A Bruxelles è il premier di sinistra ad aver governato più a lungo tra i colleghi europei, una sorta di versione sinistrorsa della tedesca Angela Merkel, imbattibile regina conservatrice in patria e indiscussa dominatrice a livello europeo. Ciononostante, il bilancio della sua attività di governo è controverso: cosa lascerà in eredità alla prospera ma insicura Austria degli anni Duemila? Che effetto farà il suo ritratto, quando verrà appeso accanto alle foto degli altri ex Cancellieri socialdemocratici nella storica sede viennese di Löwenstrasse? Rainer Nowak della Presse non ha dubbi: Faymann è “l’ultimo custode” della sinistra austriaca. Il suo obiettivo è semplice: essere l’uomo che annuncerà all’Austria la fine della crisi economica, senza angustiarsi troppo per i costi derivanti dalle misure anti-cicliche messe in campo. L’imperativo di Faymann, prosegue implacabilmente Novak, è stato “proteggere”: nonostante il provato pedigree progressista, egli prova orrore per il cambiamento autentico, vuole solo conservare, custodire e restaurare. Un’attitudine irrimediabilmente conservatrice, calata in una prospettiva socialdemocratica, si traduce per forza di cose in un acritico mantenimento del sistema di welfare e in una strategia politica mummificata nell’”eterno ritorno dell’uguale” (dunque le larghe intese perenni). Ciò ha portato ad un’azione di governo meramente difensiva e in scelte elettorali restrittive e limitate, concentrate ossessivamente sul bacino “storico” di consenso: gli attuali e futuri pensionati. Novak conclude seccamente: “Werner Faymann vuole proteggere le persone. In verità, protegge solo la SPÖ che si assottiglia e declina. Fino alla fine”.

L’intervista rilasciata da Faymann allo stesso Novak conferma indirettamente la brutale visione del caporedattore della Presse. Il premier austriaco si augura che la socialdemocrazia austriaca rappresenti agli occhi dei cittadini una certezza: “un Cancelliere socialdemocratico ci ha guidato bene durante la crisi e condotto bene al di fuori di essa” dovrebbero ammettere, suggerisce Faymann. Ciononostante, la nostalgia per un’era ormai perduta emerge potentemente dalle affermazioni seguenti: i socialdemocratici degli anni Settanta, come il mitico Kreisky, potevano mettere in campo riforme per incrementare il benessere della società. Oggi un socialdemocratico può solo sommessamente proclamare che la crisi non ha colpito i più deboli, che l’armonia sociale non è stata distrutta, che la depressione economica non è permanente. Faymann invoca soluzioni a livello europeo, rifiuta l’idea di “isole felici” che possono considerarsi al riparo dallo tsunami. È altresì consapevole che il modello organizzativo novecentesco della SPÖ ha progressivamente perduto pregnanza e senso e si augura un travaso di desiderio partecipativo tramite la cooperazione con altri attori sociali. Sono dichiarazioni di prammatica, più wishful thinking che pragmatismo. Novak lo incalza, accostandolo ai grandi del passato: qual è la dottrina di Werner Faymann? Il Cancelliere assembla una lista di luoghi comuni, sospira che sono necessarie nuove visioni. La sua è però piuttosto banale, si limita ad un generico richiamo ad un Europa più giusta. Depreca il fatto che la socialdemocrazia europea si sia trovata in balia della crisi, priva di strumenti per combatterla: “come può la socialdemocrazia promuovere equità e giustizia, impedire le speculazioni, controllare i mercati finanziari?”. Sottolinea giustamente che il tempo delle soluzioni nazionali è finito, ma poi riconosce che il successo delle formazioni euroscettiche alle prossime elezioni è molto probabile. Sul piano interno, messo alle strette sull’arrendevolezza della SPÖ durante i negoziati per il nuovo governo, sibila che occorre essere realisti per evitare delusioni.

Faymann è il capofila (per anzianità governativa) di una sinistra europea afona, stordita dalla crisi, tallonata e umiliata dalla destra euroscettica e dal conservatorismo neoliberale à la Merkel e Cameron. In Italia il PD di Letta è costretto a giocherellare con gli acronimi di vecchi e nuovi tributi, l’Obama socialdemocratico Hollande affoga nell’impopolarità e nell’inconcludenza, le vecchie volpi schröderiane Gabriel e Steinmeier si accomodano a Berlino alla tavola apparecchiata da Frau Merkel. 125 anni e sentirli tutti.

 

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