di Michele Marchi
Mentre la stampa di tutto il mondo si interroga sulle sorti del triangolo amoroso dell’Eliseo e l’atteso viaggio a Washington dell’11 febbraio prossimo forse scioglierà i dubbi su un eventuale cambio della guardia nel ruolo di première dame, François Hollande si gioca probabilmente l’ultima carta di un quinquennato fino ad oggi oscillante tra l’irrilevanza e il dilettantismo.
Solo l’evoluzione futura potrà dire se la conferenza stampa del 14 gennaio scorso, appuntamento fisso all’Eliseo per gli auguri tradizionali alla stampa estera, si tramuterà in uno spartiacque per la presidenza Hollande e per l’avvenire del Paese. Ad oggi si può comunque certificare un momento di netta discontinuità rispetto ai venti mesi di esercizio del potere e ad alcuni proclami elettorali. Da quest’ultimo punto di vista la distanza tra il candidato socialista Hollande del discorso di Le Bourget del gennaio 2012 (per intendersi quello delle banche e della finanza come peggiori nemici) e l’attuale presidente pronto a stringere un “patto di responsabilità” con sindacati e imprese è parsa siderale.
Per cercare di comprendere e valutare questa vera e propria metamorfosi, senza naturalmente dimenticare momento e platea molto differenti (l’apertura della campagna elettorale davanti ai militanti da un lato, l’austero salone dell’Eliseo e seicento giornalisti esteri dall’altro), è necessario non trascurare alcune premesse.
Il presidente di questo inizio 2014 vive una discesa costante nel livello di gradimento dei francesi, avviata già tre mesi dopo il suo ingresso all’Eliseo. Oggi quasi otto francesi su dieci si dicono insoddisfatti della sua presidenza.
A questo dato personale si deve poi aggiungere la pessima congiuntura sociale che sta attraversando il Paese, ripiegato su se stesso e dominato da parole d’ordine quali angoscia, pessimismo e declino. I più autorevoli strumenti di rilevazione statistica e i sondaggi più accreditati (non ultimo il Baromètre de la confiance politique curato dal Cevipof di Sciences Po) delineano una realtà dominata dall’ansia per il declino e dalla sfiducia nei confronti del ceto politico e delle principali istituzioni (a salvarsi sono l’impresa, la scuola, l’esercito e alcune istituzioni periferiche, perché giudicate vicine al cittadino, come il comune). I dati sono allarmanti se si pensa che quasi otto francesi su dieci ritengono che il sistema democratico francese funzioni male e l’84% afferma che i politici agiscono essenzialmente per i propri interessi personali. Questo clima da psicosi collettiva è completato da una costante critica nei confronti della globalizzazione (il 61% la ritiene una minaccia) e da un europeismo sempre più critico (solo 3 cittadini su dieci si fidano dell’Ue e il 70% ritiene necessario rafforzare i poteri dello Stato anche se questo implica limitare quelli della costruzione europea).
I francesi si percepiscono dunque in grave crisi, ma non di sola auto-percezione si tratta, dal momento che alcuni dati oggettivi lo confermano nei fatti. Il debito pubblico continua ad aumentare (93,4% del PIL), la disoccupazione non accenna a diminuire, sfondando oramai il tetto dell’11% e infine il Paese rischia di soffocare per un’opprimente imposizione fiscale paragonabile nelle classifiche Ue solo a quella italiana (non a caso disoccupazione e pressione fiscale sono al primo e al secondo posto delle preoccupazioni dei francesi).
Di fronte ad un quadro di questo genere la svolta presidenziale era quanto meno auspicabile e per certi aspetti attesa. Avaro di risposte sul feuilleton amoroso, Hollande non lo è stato sul suo tentativo di rilancio.
In realtà egli non ha detto nulla di rivoluzionario in termini assoluti. Il carattere dirompente delle sue affermazioni lo si deve rapportare al ritardo culturale della sinistra francese e all’impostazione che egli aveva dato ai suoi primi venti mesi di presidenza.
Il suo è stato un intervento di impronta socialdemocratica. Egli ha innanzitutto chiarito tre concetti semplici ma difficilmente digeribili per la gauche transalpina. Primo: è l’offerta che può far decollare la domanda e non viceversa. Secondo: sono le imprese a creare posti di lavoro. Terzo: i costi eccessivi del lavoro rendono l’economia francese, e in particolare la sua industria, scarsamente competitiva. Se questa è la diagnosi, anche la cura, per forza di cose, deve assomigliare molto a quella imposta da Schröder alla Germania di inizio XXI secolo. Diminuzione drastica della spesa pubblica, abbassamento della pressione fiscale generalizzata ma soprattutto sgravi fiscali per le imprese da inserire in un “patto di responsabilità” tra mondo produttivo, forze sociali e forze politiche.
Dall’Hollande lirico ed idealista del gennaio 2012 a quello volontarista e pragmatico del gennaio 2014 sembrano passati anni luce. In molti hanno parlato di una “seconda Bad Godesberg socialista”, dopo quella mitterrandiana del marzo 1983, quando il primo presidente socialista della Quinta Repubblica scelse la via europea suggeritagli da Jacques Delors, piuttosto che quella utopica ed irrealizzabile delle nazionalizzazioni e della redistribuzione dell’union de la gauche.
Come detto il tempo soltanto potrà chiarire la reale portata della svolta, anche perché non poche incognite si ergono all’orizzonte.
Innanzitutto Hollande ha tratteggiato i contorni di un nuovo grande compromesso sociale, indispensabile per il Paese ma realizzabile soltanto se i protagonisti lo affrontano da posizioni di forza e convinzione. La componente politica, a partire dallo stesso Hollande, non è in posizione di forza. Quella imprenditoriale, che con il Medef ha subito sostenuto la svolta presidenziale, deve però chiarire cosa offrirà come contropartita alle riduzioni fiscali in termini di impiego e dialogo sociale. Infine il sindacato, debole e diviso, non pare un attore in grado di garantire quel livello di protagonismo ad esempio riscontrato in Germania.
Seconda incognita da non trascurare è quella della copertura economica degli sgravi. Naturalmente la conferenza stampa presidenziale non era il luogo per soffermarsi su dettagli di natura tecnica, ma di non poco conto è il tema della percorribilità della strada degli sgravi alle imprese se, come affermato, si procederà con la riduzione del debito pubblico e non si introdurranno nuovi aumenti nella tassazione alle famiglie.
Una terza incognita riguarda la risposta che il quadro politico nel suo insieme offrirà alla sfida lanciata da Hollande. Il presidente è consapevole di avere estremo bisogno del PS compatto al suo fianco e non a caso ha annunciato che l’esecutivo chiederà un voto di fiducia all’Assemblea nazionale una volta definito nei dettagli l’insieme dei provvedimenti. La provocazione è diretta all’ala sinistra del partito ma anche a tutte le altre componenti più riottose della sinistra, dagli ecologisti al Front de gauche, che non a caso sono corsi a bollare come “social-liberali” le proposte di Hollande. Nelle prossime settimane l’Eliseo vuole anche effettuare una verifica, per ridefinire il perimetro della maggioranza presidenziale. E questo anche per quello che riguarda il centro. Non a caso Borloo e Bayrou hanno apprezzato le proposte e si sono detti pronti anche a sacrifici importanti per il bene del Paese. A destra infine un UMP lacerato in profondità dalle faide tra i fedeli di Copé e quelli di Fillon, ma anche scombussolato dall’ombra mai dissipata del ritorno di Sarkozy, è stato colto senza dubbio di sorpresa dal rilancio presidenziale, ma non tarderà molto ad attaccare il presidente “liberale a parole ma non nei fatti”.
Una quarta e ultima incognita riguarda infine la risposta dell’opinione pubblica. Senza dubbio Hollande ha cercato un rilancio avendo ben presente i dati relativi alla sfiducia, sia nei suoi confronti, sia nel più generale sistema Paese. Ha scelto, per la prima volta dopo venti mesi, di non predicare solo ottimismo (nascondendo l’insostenibilità del modello sociale francese) e di non assecondare semplicemente le diffuse ansie sociali, ma di affrontarle, cercando di offrire risposte chiare alla doppia frattura, economica e democratica, che attraversa il Paese.
Avrà la forza di imporre al suo partito e all’intera Francia la svolta? Riuscirà ad andare oltre la presumibile doppia debacle elettorale di fine marzo (elezioni cantonali) e fine maggio (europee)? Sarà in grado di evitare facili, quanto sterili, critiche alla quasi certa grande crescita elettorale del FN e di interpretare tale (probabile) successo alla luce del clima di sfiducia e di depressione, nonché di rigetto dei meccanismi tradizionali di esercizio della sovranità e della decisione politica?
Considerata l’attuale congiuntura europea c’è da sperare che l’“azzardo” di Hollande imponga un cambio di ritmo alla sua opaca presidenza. Ne trarrebbe prima di tutto giovamento l’Ue, dato che Parigi potrebbe tornare a svolgere un ruolo politico determinante negli equilibri europei, oggi troppo sbilanciati verso Berlino. Difficile uscire dall’attuale fase di controversa “supremazia tedesca”, senza una ripartenza politica ed economica del vero “malato continentale”.
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