di Damiano Palano
Nella storia del Partito Socialista Italiano, il Congresso di Verona del 1984 costituì probabilmente una tappa cruciale, perché proprio allora, con la vittoria pressoché incontrastata di Bettino Craxi su ogni rivale interno, giunsero a piena maturazione tutti i segnali di trasformazione gradualmente emersi a partire dalla svolta del 1976. Scontata fin dall’inizio la conferma di Craxi, il Congresso si trasformò infatti in una convention mediatica, che culminò nella rielezione del segretario per acclamazione. Proprio segnalando l’anomalia di una simile scelta, pochi giorni dopo Norberto Bobbio – che pure aveva alle spalle una lunga militanza nel Psi – scrisse sulla «Stampa» un celebre articolo, in cui denunciava l’anomalia della Democrazia dell’applauso, un’anomalia che segnalava una lesione inquietante delle procedure democratiche interne. «L’elezione per acclamazione non è democratica, è la più radicale antitesi della elezione democratica», scriveva Bobbio, perché nell’acclamazione «si esprime l’opinione, ma sarebbe meglio dire il sentimento, lo stato d’animo, la reazione immediata, puramente emotiva, non del singolo individuo, ma della massa informe in cui l’individuo singolo conta non per se stesso ma come parte di un tutto che lo trascende, la massa appunto» (N. Bobbio, La democrazia dell’applauso, in «La Stampa», 16 maggio 1984).
Quell’articolo sancì certo il definitivo distacco del filosofo torinese dalla causa del Psi, ma divenne anche un punto di riferimento per chi vedeva nel craxismo non un virtuoso esempio di decisionismo modernizzatore, bensì i tratti di una nuova prassi antidemocratica, capace di combinare un’abile strategia di costruzione dell’immagine pubblica con una disinvolta gestione del potere, non certo immune da rischi di corruzione. D’altronde Craxi – nonostante fosse, dopo Ferruccio Parri, il primo Presidente del Consiglio espresso da un partito di sinistra nella storia repubblicana – trovò i suoi più acerrimi rivali proprio a sinistra, e cioè sul versante politico che in linea teorica non gli doveva essere totalmente ostile. E, soprattutto, non trovò alcun appoggio – se non del tutto episodico – nel principale partito della sinistra italiana, il Partito comunista. Tanto che l’ascesa di Craxi può essere considerata da Marco Gervasoni – nel suo recente La guerra delle sinistre. Socialisti e comunisti dal ’68 a Tangentopoli (Marsilio, Venezia, 2013, pp. 204, euro 19.00) – come il momento di avvio di una conflittualità interna al campo di sinistra, le cui conseguenze non si sarebbero esaurite neppure due decenni dopo l’uscita di scena di Bettino Craxi.
Il libro di Gervasoni, già autore di alcuni stimolanti saggi sulla storia politica italiana dell’ultimo mezzo secolo (tra cui in particolare Storia d’Italia degli anni Ottanta. Quando eravamo moderni, Marsilio, Venezia, 2010, La cruna dell’ago. Craxi, il Psi e la crisi della Repubblica, Laterza, Roma – Bari, 2005, con Simona Colarizi), non si pone però solo l’obiettivo di ricostruire le vicende del dissidio fra Psi e Pci nel quarto di secolo che conduce dal 1968 fino al collasso della Prima Repubblica. Più in generale, Gervasoni cerca infatti di spiegare il fallimento – politico e culturale – della sinistra italiana: un fallimento di cui lo storico ritrova le ennesime conferme nella sconfitta elettorale subita dal Partito Democratico nel 2008 e nella mancata vittoria del 2013, e che in sostanza si riassume nell’incapacità di questa parte politica di esprimere una credibile leadership di governo (oltre che, probabilmente, anche una autentica ‘cultura di governo’). E la tesi che Gervasoni propone è esplicitata fin dalle prime pagine: «crediamo che un fattore fondamentale per spiegare il fallimento della sinistra italiana, il suo essere figlia di un dio minore, sia da cercare nel peso abnorme esercitatovi dal comunismo e nella scarsa volontà prima, nella incapacità poi, dei socialisti di controbattere a questa egemonia» (p. 8). In altre parole, il fallimento della sinistra italiana nasce dall’egemonia esercitata dal Pci, ma anche nella speculare debolezza – al tempo stesso politica e culturale – dei socialisti. Una debolezza che ebbe la sua prova più evidente nella decisione di allearsi con il Pci, sotto le insegne del Fronte democratico popolare, nelle elezioni del 1948, ma che si protrasse ancora a lungo.
Gervasoni considera dunque l’avvento di Craxi alla guida del partito come una vera e propria «rivoluzione copernicana». La «sfida» di Craxi, secondo la lettura proposta dallo storico, si giocò così in due distinte fasi; prima come una battaglia finalizzata a «trasformare il Psi in partito di cultura socialdemocratica, liberandolo dalle incrostazioni antiriformiste e soprattutto dalla soggezione culturale nei confronti del comunismo» (p. 10); in seguito come un tentativo di «stimolare il Pci a rivedere la propria identità, a intraprendere un percorso di tipo revisionistico che lo avvicinasse al socialismo democratico europeo» (p. 10). Ma questo secondo obiettivo – ammesso che rientrasse effettivamente nei piani di Craxi – non venne mai raggiunto, perché il Pci continuò di fatto a ritrovare nel segretario socialista il proprio bersaglio polemico lungo tutti gli anni Ottanta, conservando questa posizione anche una volta abbandonato ogni riferimento all’ideologia comunista.
Nel ricostruire le tappe della «guerra della sinistra», Gervasoni parte dalla metà degli anni Settanta, dai vivaci dibattiti che si svolgono sulle pagine di «Mondoperaio» e che, oltre a mettere in luce il deficit di liberalismo e garantismo della tradizione teorica leninista, insidiano l’egemonia del Pci proprio su quel terreno culturale in cui aveva ottenuto i maggiori successi nel primo trentennio repubblicano. In questa fase, l’orizzonte entro il quale si sviluppa la discussione è ancora costituito dall’«alternativa socialista», ossia dalla prospettiva di una collaborazione tra i due principali partiti della sinistra italiana. La «guerra» vera e propria inizia solo in coincidenza con il sequestro Moro, sia perché in quei giorni Craxi cerca di «rivendicare l’‘identità umanitaria’ del partito rispetto al ‘cinismo’ della ‘ragion di Stato’ evocata da democristiani e soprattutto da comunisti» (p. 42), sia perché il Pci e la Dc vedono l’iniziativa del leader socialista come una «provocazione». È in seguito alle lacerazioni di quei drammatici giorni che il Pci incomincia d’altronde a vedere in Craxi – come ebbe a scrivere Antonio Tatò, il segretario particolare di Enrico Berlinguer – un «morbo» che insidia la sinistra italiana. E pochi anni dopo, conclusa definitivamente la parentesi del ‘compromesso storico’ (e consumata la sconfitta dell’occupazione della Fiat), lo stesso Berlinguer avrebbe intravisto nel Psi di Craxi la principale conferma della gravità della «questione morale», ossia la prova della progressiva diffusione della corruzione in tutti i partiti di governo.
A rafforzare la diffidenza verso il nuovo corso socialista, come osserva Gervasoni, è però anche il modello di partito ‘presidenzializzato’ che la leadership di Craxi prefigura (e che lo stesso Bobbio prende di mira dopo il Congresso di Verona): «Uno sforzo di modernizzazione che, però, né i comunisti né i democristiani comprendono, confondendo la leadership carismatica con l’autoritarismo. Dubbi più che legittimi nella Dc, a tutti gli effetti un partito democratico nella sua vita intera, non nel Pci, dove vige il ‘centralismo democratico’, con un segretario nominato a vita, al di sopra di ogni critica, osannato con un culto della personalità che, in modalità diverse, si trasferisce inalterato da Togliatti a Berlinguer» (pp. 79-80). I motivi di diffidenza devono però ingigantirsi con la conquista di Palazzo Chigi da parte di Craxi, e con l’avvio di una serie di politiche che, più o meno esplicitamente, si richiamano alla rivoluzione ‘neo-liberale’ di Reagan e Thatcher. Quella che emerge in questo periodo è così una totale divaricazione di prospettive. A proposito della revisione compiuta dal Psi, Gervasoni osserva che già nel 1982, con la Conferenza programmatica di Rimini, il Psi «approda pienamente alla cultura riformista» e comincia a delineare «il ritratto di una società ‘postindustriale’, aperta, dinamica e liberale, in cui il mercato, anziché essere visto come un limite o un male da combattere, è considerato un’opportunità e uno stimolo per una maggiore giustizia sociale» (pp. 90-91). Un simile discorso – scrive sempre lo storico – «suona però incomprensibile ai comunisti, ai cui occhi Craxi appare ora anche come una sorta di neoliberista, un seguace delle soluzioni economiche di destra di Reagan e della Thatcher» (p. 91). Nei cortei sindacali, Craxi inizia d’altronde a diventare il bersaglio polemico privilegiato e costante, e prende dunque forma quella vera e propria ‘demonizzazione’ destinata a segnare un intero decennio, per la cui spiegazione – nota Gervasoni – vengono in soccorso «le categorie della psicologia collettiva e dell’antropologia»: «in mancanza di un nemico interno forte e definito, il popolo comunista lo intravede in Craxi e nei socialisti, che incarnano una sinistra diversa, all’altezza dei tempi, con ciò additando ai comunisti lo stato della loro crisi. Gli anni ottanta, nell’immaginario dei comunisti, si delineano infatti subito come un periodo orribile, di caduta delle grandi tensioni, dominati da un lato dall’enrichissez-vous generalizzato e dall’altro dalla corruttela e dal cinismo, e in cui, per la prima volta nella loro storia, si sentono inadeguati, in ritardo, messi ai margini» (p. 92).
La demonizzazione del leader socialista (e dello stesso Psi) continuerà fino al termine della ‘Prima Repubblica’ e raggiungerà il culmine nei giorni di Tangentopoli. Una delle tesi centrali di Gervasoni vede d’altronde proprio nell’anti-craxismo il principale vincolo identitario che – perduto ormai ogni legame con l’ideologia marxista e con il modello sovietico – guida la navigazione incerta del Pds. In altre parole, venuto meno ogni altro riferimento identitario, il Pds definisce la propria idea di sinistra per contrasto con il modello di sinistra costruito negli anni da Craxi e dal Psi. È infatti proprio l’anti-craxismo coltivato tenacemente per un decennio a spingere il neonato Pds dapprima a cavalcare la tempesta di Tangentopoli e, in seguito, a rifiutare una cultura riformista: «Una delle conseguenze della guerra culturale che il Pci aveva intrapreso contro Craxi», scrive lo storico, «portò infatti i postcomunisti al rifiuto di un’identità di tipo riformista socialdemocratica, persino dopo la morte del leader socialista» (p. 11). D’altronde, molti degli stereotipi alla base della demonizzazione di Craxi finiscono con l’essere interamente riutilizzati per fronteggiare il nuovo avversario Berlusconi.
La ricostruzione proposta da Gervasoni è senza dubbio lineare, e i contorni della «guerra delle sinistre» che emergono dal volume sono difficilmente contestabili. Ma dalla lettura del lavoro dello storico non possono però che affiorare alcune domande che riguardano proprio il ruolo ‘modernizzatore’ che Craxi e il Psi ebbero nella storia italiana. Se Gervasoni coglie bene la demonizzazione dell’avversario compiuta dal Pci, e se riconosce perfettamente le deformazioni polemiche che stavano alla base di quell’operazione, sembra talvolta sorvolare su una valutazione più compiuta della intenzioni politiche di Craxi. O, meglio, pare talvolta prendere fin troppo sul serio l’immagine che il leader socialista dipinse di se stesso e del suo partito quando evocava la necessità di ‘modernizzare’ lo Stato e di costruire istituzioni politiche all’altezza dei tempi. Proprio contro questa pretesa si volsero il Pci, i suoi intellettuali e una fetta consistente del ‘popolo della sinistra’, concedendo fin troppo a una retorica non priva di connotazioni ‘conservatrici’. Ma oggi che la distanza storica ci consente uno sguardo più meditato, è probabilmente possibile riconoscere che – se il Pci appariva negli anni Ottanta del tutto privo di qualsiasi progettualità politica – le istanze di ‘modernizzazione’ portate avanti dal Psi erano spesso poco più che bandierine agitate del tutto strumentalmente.
Chiedersi oggi se Bettino Craxi e il suo Psi siano stati o meno espressioni della ‘modernità’ e della ‘modernizzazione’ – contro il ‘passatismo’ e la ‘conservazione’ del Pci – non può che essere una domanda piuttosto ambigua, se non altro perché non è affatto chiaro cosa siano la ‘modernità’ e la ‘modernizzazione’. Da un lato, il Psi fu sicuramente ‘moderno’ sul lato dell’immagine pubblica, perché riuscì davvero a diventare il simbolo del ‘nuovo’ nella sua avanzata travolgente, ma, sotto questo profilo, nel corso del Novecento furono ‘moderni’ anche Benito Mussolini e i bolscevichi sovietici, perché a loro modo seppero interpretare una delle tante facce della modernità e del ‘nuovo’. Dall’altro, sul versante della capacità di ‘modernizzare’ il paese (ossia della capacità di adeguare le sue istituzioni politiche alle trasformazioni della società), è invece davvero difficile ravvisare anche solo una piccola voce in positivo nel bilancio del craxismo. Certo Craxi portò avanti delle istanze di ‘modernizzazione’, ma si trattava di una modernizzazione tutta rivolta al sistema dei partiti e in particolare all’obiettivo della rottura del «bipartitismo imperfetto», e per raggiungere questo scopo giocò (senza successo) quasi tutte le carte che aveva a disposizione. Ed è proprio in questo breve arco di tempo che il ‘riformismo’ perde qualsiasi riferimento alla storia del socialismo europeo (oltre che alla frattura tra riformismo e rivoluzione), per diventare una formula passepartout con si promette invariabilmente di abbattere tutto il ‘vecchio’ (le rendite di posizione, i privilegi corporativi, e così via), prefigurando al tempo stesso i benefici generalizzati di una simile azione ‘riformatrice’. Craxi seppe senza dubbio utilizzare con grande abilità la retorica di questo ‘riformismo’, progettando grandi riforme, la principale delle quali – la ‘Grande riforma’ per eccellenza – investiva naturalmente le istituzioni politiche. Ma, esaminando il suo operato con la distanza consentita dalla storia, nella realtà non compì mai nessuna reale riforma, limitandosi piuttosto a guadagnarsi il consenso mediante una dilatazione della spesa, legami clientelari e tutto quello che le inchieste giudiziarie avrebbero portato alla luce. Osservata da quasi tre decenni di distanza, l’Italia di Craxi non può comunque apparirci come un esempio riuscito di buona ‘modernizzazione’, o di efficace ‘riformismo’. Sia perché la classe politica degli anni Ottanta spicca semmai per i suoi limiti e per l’incapacità di prevedere anche soltanto una delle grandi sfide da cui il paese sarebbe stato investito, sia perché l’opulenza conquistata in quegli anni – un’opulenza che ci fu davvero, e cui d’altronde sono consegnati gli ultimi ricordi di una stagione non segnata dalla crisi o dal ristagno – ci sembra piuttosto un’estorsione ai danni delle generazioni future e il riflesso di una sorta di generalizzata corruzione di massa. E proprio per questi motivi non possiamo probabilmente non riconoscere, nel decennio in cui Craxi occupò la scena politica italiana da protagonista, il decennio perduto, in cui maturò il lungo, interminabile declino italiano.
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