di Danilo Breschi
Riforma elettorale sì, riforma elettorale no: questo è il dilemma. Ma sarebbe assai meglio metterla in forma interrogativa, così: è questo il dilemma? A seguire il dibattito politico delle ultime settimane parrebbe proprio di sì. Diciamo meglio: il dibattito evidenziato e amplificato da stampa e tv. Con il web che segue, come non di rado accade, rivelando la Rete essere ancora ben lungi dal configurarsi quale fonte di pensiero alternativo, per lo meno critico e indipendente da mode e conformismi. Al più, capita di trovare online chi si schiera contro la proposta di legge presentata da Renzi e Pd, fatta in accordo con Berlusconi e Forza Italia. Si accetta il terreno di scontro dell’avversario, giocando di semplice rimessa. Tu dici maggioritario? Io dico proporzionale. Tu dici no alle preferenze? Io dico sì. Eccetera, eccetera.
Siamo però così sicuri che si debba partire dalla legge elettorale? Personalmente ho dei dubbi. Oggi, sul “Corriere della Sera”, il costituzionalista Michele Ainis pone la questione nei seguenti termini: “il peggio è stare fermi, ed è precisamente questo lo spettacolo che ha messo in scena la politica, nei 9 lunghi mesi trascorsi all’insegna del Porcellum”. Morale della favola: chi si ferma è perduto. E il ragionamento tiene, per molti aspetti. Ainis ha ragione nel dire che dall’insediamento di Letta al governo, peraltro di “larghe intese”, si è vista crescere con preoccupazione “una distanza, una separazione, un baratro tra le istituzioni e i cittadini”. Ha sempre ragione quando aggiunge che “è questa la prima emergenza nazionale, riannodare il filo che ci lega al nostro Stato, giacché adesso siamo un po’ tutti orfani di Stato”. Ma è proprio qui il punto, che rende non del tutto convincente l’argomentazione di Ainis. Che è poi lo stesso tipo di argomentazione con cui Massimo Giannini firma, sempre oggi, l’editoriale di “Repubblica”. Anche il vicedirettore del quotidiano fondato da Eugenio Scalari ritiene un fatto comunque positivo che la discussione sulla legge elettorale sia giunta alla Camera, perché ciò significa che “il treno delle riforme si muove” e che “nella nostra democrazia bloccata un ‘convoglio’ riformatore si è finalmente messo in marcia”. E aggiunge: “non è poco per un sistema pietrificato come il nostro”.
Dunque la grande stampa, quella che fa più opinione, converge. E i due editorialisti possono accampare molte ragioni a sostegno della loro tesi. Ma quell’orfanità di Stato di cui parla Ainis si colma davvero con il sistema elettorale? È senz’altro vero che, come egli scrive, la “funzione più importante dei sistemi d’elezione” è “decidere un governo, e deciderlo sotto dettatura degli stessi governati”, ma ancora lo Stato non viene minimamente toccato da un sistema che si limita a selezionare chi deve governare per nostro conto. Lo Stato si qualifica per come governa, non per chi chiama al governo. Soprattutto se parliamo di democrazie liberal-costituzionali dotati di sistemi di welfare ed economie progredite. Certamente si può migliorare la rappresentatività del parlamento adottando una legge elettorale piuttosto che un’altra. E su questo l’Italicum di Renzi e Berlusconi lascia comunque spazio a dubbi e perplessità. Ma il problema è un altro.
Con la legge elettorale non si riformano, cioè non si migliorano, né l’efficienza né l’efficacia della macchina decisionale, dunque del governo e con esso dello Stato nel suo insieme. Quel che da sempre i cittadini delle democrazie occidentali chiedono in prima battuta sono crescita e benessere, o almeno segnali di ripresa laddove, come nell’Italia di oggi, la crisi si sta prolungando oltremisura. Anche a non saper né leggere né scrivere, anche a non intendersi di scienza della politica e della pubblica amministrazione, si è ormai fatta largo presso ampi strati della cittadinanza la consapevolezza che occorrano interventi pubblici forti e decisi e non più rinviabili. Ormai anche coloro che di politica non si sono mai interessati sanno bene che il nostro Paese è fermo. Come ha scritto alcuni mesi fa Ernesto Galli della Loggia, l’Italia è “ai vertici di quasi tutte le classifiche negative europee: della pressione fiscale, dell’evasione delle tasse, dell’abbandono scolastico, del numero dei detenuti in attesa di giudizio, della durata dei processi così come della durata delle pratiche per fare qualunque cosa”. E, pochi giorni fa, ha aggiunto un’altra patologia: un blocco burocratico-corporativo, vero potere forte “che consiste principalmente nella possibilità di condizionare, ostacolare o manipolare il processo legislativo e in genere il comando politico”. Ne consegue che “anche il tessuto unitario del paese si va progressivamente logorando, eroso da un regionalismo suicida che ha mancato tutte le promesse e accresciuto tutte le spese”.
Ma come? La televisione e la stampa ci assordano da anni indicandoci questi come i mali di cui soffre sempre più la nostra nazione, e quella stessa televisione e quella stessa stampa oggi, e in contemporanea alla lamentazione quotidiana sul declino italico, ci propongono la riforma elettorale come un avvio di soluzione? Si replica: meglio che nulla! Come abbiamo visto, l’obiezione è che da qualche parte bisogna pur cominciare, e per un Paese fermo muoversi è imperativo categorico. Ma, di nuovo, è questo il gesto necessario per la messa in moto di una macchina da troppo tempo ingolfata e in sosta vietata? È con l’approvazione di una legge elettorale che la classe politica dà oggi in Italia, nell’anno di grazia 2014, la dimostrazione di essere tornata a “fare politica”? Non ne sono affatto convinto. Massimo Giannini giustamente fa notare che il “vagone della nuova legge elettorale” si porterebbe dietro anche quelli del superamento del bicameralismo perfetto e della modifica del Titolo V. E già sarebbe qualcosa, lo ammetto. Ma è proprio questo che rimette in moto lo Stato di cui siamo orfani? Per muoversi, ossia essere efficienti, bisogna anzitutto snellirsi un po’. Dopodiché, ripreso a camminare, l’organismo deve riacquisire capacità di produrre decisioni che ci tolgano gradualmente, ma nemmeno troppo lentamente, visti i tempi accelerati nei quali viviamo, dai vertici di tutte le classifiche negative europee. Ad una ad una dobbiamo sfilarci dai primi posti, semmai da riservare alle classifiche positive del continente. È chiedere troppo? Niente affatto, nella misura in cui non uscire dalle classifiche negative significherebbe alla lunga mettere in discussione persino la tenuta dell’unità statuale. Col che la condizione di orfani dello Stato si farebbe davvero cronica e potrebbe favorire nostalgie per soluzioni demagogiche e plebiscitarie.
In sintesi, credo abbia ancora una volta ragione il vecchio maestro della scienza politica italiana, Giovanni Sartori. Nell’editoriale di domenica scorsa, sul “Corriere della Sera”, il politologo fiorentino ha ribadito: “la riforma elettorale è materia di legge ordinaria, mentre la riforma dello Stato è materia di legge costituzionale. E i tempi tra le due cose sono molto diversi, anche di due anni. Però se non vogliamo incappare in errori del passato le due cose devono essere armonizzate (nelle nostre teste) sin dall’inizio”. Mi permetto di aggiungere: armonizzate anche nelle azioni concrete dei politici. Ergo: riformate lo Stato (o meglio: la forma di governo) e riformate la legge elettorale.
In conclusione, una domanda ingenua: ma è poi così diverso l’Italicum dal Porcellum? Sempre oggi, e sempre su “la Repubblica”, il costituzionalista Alessandro Pace mette perfino in discussione la costituzionalità dell’Italicum così come è stato proposto. Si rischia insomma di riprodurre quella violazione del principio di eguaglianza già censurato dalla Corte costituzionale meno di due mesi fa. Aggiungo una considerazione ulteriore: il Porcellum garantì maggioranza amplissima nel 2008, eppure maggiore efficienza ed efficacia dello Stato non si sono avute. Nel 2006 Prodi si ritrovò una manciata di voti di maggioranza, ma cadde più per lotte intestine alla propria coalizione e attacchi giudiziari che non a causa della legge elettorale. E, nonostante tutto, durò quasi due anni. Nel 2013 il Porcellum ha dato il risultato che ha dato a causa di una mutazione profonda nell’offerta elettorale, con la comparsa di Grillo, o meglio con l’emersione di una domanda di cambiamento che ha deciso di provarla nuova o diversa, anche se l’offerta era a scatola chiusa.
Il problema è che noi abbiamo bisogno di esecutivo, opportunamente controllato (non ingabbiato) dal legislativo, altrimenti niente efficienza, niente efficacia. E dunque: niente riforme, ossia rimessa in moto e rimessa in forma di un Paese fermo e deformato. La stabilità dell’esecutivo non ce la darà mai il sistema elettorale. Ci potrà garantire una maggioranza, ed è su questo che si stanno accanendo e scannando le forze politiche. Ma una maggioranza parlamentare, magari anche poggiante sulla coalizione di più partiti, serve ben poco ad una presidenza del consiglio dei ministri così com’è configurata dalla Costituzione del 1948. Per capire che poco si capisce di forme di governo e forme di Stato, basta pensare all’uso disinvolto che si fa del termine “premier”. Ma che premier! Il nostro, al più, è un amministratore di condominio.
Cambiare la forma di governo: cancellierato alla tedesca, premierato all’inglese, semipresidenzialismo alla francese, o qualcosa di assimilabile e compatibile, facilmente digeribile dal nostro Paese. Ma modifichiamo i rapporti tra esecutivo, legislativo e giudiziario, mantenendoli indipendenti e separati come Montesquieu e i Padri Fondatori americani ci hanno insegnato, ossia facendo in modo che si controllino a vicenda ma senza che il freno reciproco si tramuti in paralisi generalizzata. Si scelga una di queste forme di governo, e dunque vi si associ il sistema elettorale annesso e connesso, e già sperimentato in altre consolidate democrazie europee. Quando questo sarà fatto, potremo parlare di riforme costituzionali nel senso vero e profondo della parola e come servizio utile e giusto reso ai cittadini di questo Paese.
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