di Davide Parascandolo
Ancora in corso a Ginevra il delicatissimo negoziato di pace iniziato lo scorso 22 gennaio che vede coinvolti i due schieramenti contrapposti in Siria ormai da tre anni in un conflitto che ha prodotto ad oggi oltre 130 mila vittime. Da una parte la delegazione governativa guidata dal Ministro degli Esteri Walid al-Muallem, dall’altra i ribelli del Cns (la coalizione nazionale siriana di opposizione), capeggiata da Amhad Jarba. Le due delegazioni, inizialmente separate durante le giornate introduttive svoltesi a Montreux, sempre in Svizzera, hanno accettato di sedersi l’una di fronte all’altra, seppur senza parlarsi direttamente, per cercare di istituire un canale di dialogo gestito dall’esperto mediatore delle Nazioni Unite e della Lega Araba Lakhdar Brahimi. Impercettibili sinora i passi avanti, con le due opposte fazioni su posizioni lontanissime ed antitetiche. Unico traguardo che sembra al momento raggiungibile, sebbene non sia ancora stato trovato un accordo, è quello di garantire l’apertura di un corridoio umanitario per portare in salvo donne e bambini da Homs, città piegata dal duro assedio delle forze governative. Si tratterà fino al 31 gennaio, prima di una pausa che vedrà forse la ripresa dei negoziati nel mese di febbraio.
L’ambizioso obiettivo iniziale prefissato dall’Onu era e rimane sostanzialmente quello di pervenire ad una sorta di road map atta a far nascere consensualmente un governo transitorio al fine di creare un sistema politico democratico e pluralista. Dalla realtà dei fatti sta scaturendo però uno scenario ben diverso, essendo apparse le posizioni del regime e dei ribelli da subito inconciliabili. Il primo ha tenuto chiaramente a precisare come il suo unico scopo sia quello di combattere il terrorismo che sarebbe perpetrato dai secondi, escludendo qualsiasi ipotesi di transizione che non sia gestita dallo stesso Bashar al-Assad. I ribelli, per converso, hanno posto come condizione imprescindibile una transizione senza l’attuale raìs, portando immediatamente i colloqui ad una situazione di stallo. Sin dall’inizio, tuttavia, il vertice non è partito sotto i migliori auspici, essendo stato escluso dal tavolo negoziale l’Iran, soggetto la cui mediazione è considerata indispensabile per l’auspicata risoluzione del conflitto. Alleata di ferro del regime di al-Assad, Teheran non è stata invitata al tavolo delle trattative per non aver accolto la proposta di governo transitorio contenuta nel protocollo redatto durante il vertice di Ginevra I, tenutosi nel giugno del 2012. Inoltre, neanche tutte le forze ribelli che compongono il fronte del Cns sono presenti al summit. Di rilievo l’assenza dell’Esercito siriano libero e del Fronte islamico, mentre mancano per ovvi motivi i gruppi qaedisti radicali.
Per comprendere l’importanza dell’assenza di Teheran, occorre tenere a mente che un reale accordo non potrà prescindere da un’intesa sull’asse saudita-iraniano, così come non potrà non tener conto delle questioni relative al nucleare e agli interessi che investono l’Asia Centrale. Il conflitto che sta annientando la Siria è infatti un classico esempio di “proxy war”, una guerra per procura in atto tra Riyad e Teheran per assicurarsi l’egemonia geostrategica nella regione del Grande Levante, che si estende dal Libano fino al Pakistan, passando per la Penisola Arabica. Ciò di cui si deve prendere atto è che siamo di fronte ad una estesa guerra civile musulmana, imperniata sulla contrapposizione tra sunnismo e sciismo, di cui Arabia Saudita e Iran sono i due rispettivi custodi (in questo quadro, ricordiamo che quello siriano è un regime legato agli alawiti, setta musulmana sciita). E non è un caso se il conflitto rischi di estendersi ben oltre i confini siriani, con la situazione più esplosiva che si registra in Iraq, dove i gruppi jihadisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis) hanno ormai assunto il controllo della provincia settentrionale dell’Anbar, e sono intenzionati a creare un grande califfato islamico che incorpori Siria e Iraq. Drammatica poi appare la situazione dei profughi; oltre due milioni si sono rifugiati tra il Libano, attualmente attraversato da una pericolosa instabilità politica, e la Giordania, dove ormai i siriani in fuga approdati nel sito di Zaatari hanno formato il quarto agglomerato urbano del Paese. Se si adotta infine una prospettiva globale, la partita geostrategica si gioca tra Russia e Stati Uniti, con questi ultimi determinati a non compromettere il dialogo appena instaurato con Teheran, ma obbligati nel contempo a contenere l’aumento dell’influenza di Mosca nell’area.
D’altra parte, l’estrema complessità del contesto siriano può essere ben riassunta dall’intricato quadro che di seguito cerchiamo di semplificare. Da un lato, i Paesi a sostegno del regime di al-Assad sono Russia, Iran, Iraq, Libano e il movimento Hezbollah. Dall’altro, nella nutrita schiera degli oppositori si collocano Stati Uniti, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Barhein, Oman, Kuwait, Turchia ed Egitto. Ad essi si aggiunge al-Qaeda. Non sfugge come, in un raggruppamento che va da quest’ultima agli Stati Uniti, gli interessi non possano che essere contrastanti, con il risultato di rendere ancor più insolubile il rompicapo. Come se non bastasse, anche i vari gruppi ribelli non sono uniti e alcuni di essi, oltre che contro il regime, si combattono vicendevolmente. Difficilissimo pertanto individuare quali frange dell’opposizione debbano essere chiamate a partecipare ad un eventuale governo di transizione. Sulla scacchiera si muovono dunque molti attori, e ogni mossa futura dovrà perciò essere attentamente soppesata. Allo stato attuale, tuttavia, la partita sembra ancora ben lungi dal concludersi.
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