di Alessandro Campi
Si è provato col “rimpasto”, un classico dell’arte del non governo all’italiana, ma come formula sapeva troppo di Prima Repubblica. Ci si è dunque inventati la “staffetta”. Se cambiare qualche ministro per mandare un segnale di discontinuità comporta trattative estenuanti e rischia di scatenare una guerra per le poltrone, perché non cambiare direttamente il capo del governo, sperando che oltre ad una compagine tutta nuova riesca anche a trovarsi una maggioranza diversa e più larga? Ma il diretto interessato, messo dinnanzi ad una simile eventualità, sembra aver fatto orecchie da mercante. Non si tratta solo del fastidio per parole desuete e per stanchi riti politici, che peraltro non hanno mai portato fortuna a chi se ne è reso protagonista nel passato recente (l’apoteosi di D’Alema, finalmente a Palazzo Chigi al posto di Prodi dopo averlo sfiancato e grazie anche ai maneggi parlamentari di Cossiga, fu l’inizio del suo declino). È un problema di sostanza politica e di strategia. Conviene a Matteo Renzi sostituire in corso d’opera Enrico Letta? E conviene al Paese?
Tra chi tifa per l’avvicendamento ci sono, a quanto pare, esponenti importanti dell’establishment economico-finanziario italiano, la cui capacità di stancarsi di un leader politico è pari solo alla velocità con cui se ne sono prima invaghiti. Chi punta oggi su Renzi, due anni fa aveva puntato su Monti, un anno fa su Letta. E tra dodici mesi?
Ma ci sono anche personalità politiche che al Sindaco di Firenze debbono essere immediatamente parse sospette: quando un avversario (interno o esterno poco importa) ti consiglia amichevolmente di fare una cosa, forse conviene fare la cosa esattamente contraria. Ti vogliono al governo? Stanne fuori. Ci sono poi gli amici impazienti, che spesso rischiano di peccare per generosità e piaggeria e che vanno a loro volta tenuti a freno. Ti consigliano di prendere in mano l’esecutivo perché pensano che sia il tuo desiderio inconfessabile, perché il loro sogno sta per tramutarsi in realtà (ma la fretta in politica può essere letale) e perché – siamo uomini e la carne è debole – alle fine anche loro ne trarrebbero il giusto beneficio.
La verità è che Renzi è l’unico politico italiano che negli ultimi anni si sia conquistato i galloni sul campo. Ed è questa la ragione che più di altre spiega il suo apprezzamento trasversale. Per gli altri protagonisti al suo livello – da Monti a Letta, passando per Alfano – è valsa la regola della cooptazione e della chiamata dall’alto, tipica dei regimi oligarchici senescenti, invece che quella della competizione che rende dinamiche le democrazie. Stando così le cose gli conviene, per come ha impostato il suo rapporto con l’opinione pubblica, per le attese che creato, per il modo con cui ha conquistato la segreteria del Pd e sbaragliato i suoi concorrenti, la scorciatoia parlamentare, per definizione obliqua e piena di insidie, rispetto ad una piena legittimazione popolare che gli darebbe mani libera sulle cose da fare? Certo, nessuno può garantirgli, nemmeno con la legge elettorale che vorrebbe far approvare dal Parlamento, una vittoria facile alle urne. Ma ci vuole poco a capire che caricarsi il peso di un governo nato sulla base di una formula (le larghe intese) che rappresenta la negazione radicale del bipolarismo e della democrazia dell’alternanza di cui è un sostenitore convinto sarebbe per lui una evidente sconfitta – politica e d’immagine.
Conviene allora all’Italia un cambio di poltrona alla guida di Palazzo Chigi? Ormai si è capito che la stabilità senza un’azione di governo incisiva non vale nulla. E che quest’ultima dipende, più che dalla capacità (o volontà) dei singoli, dagli obiettivi concreti che questi ultimi eventualmente si danno. Insomma, dal programma, che però presuppone, per essere prima elaborato a misura dei problemi del Paese e poi realizzato e messo in opera, un indirizzo politico per quanto possibile omogeneo. Esattamente cioè che manca al governo attuale, nato non da un accordo o patto politico, ma da uno stato d’emergenza per risolvere il quale è dovuto intervenire il Capo dello Stato. L’attuale maggioranza (o una leggermente diversa, grazie a qualche transfuga che non manca mai quando si profila una crisi di governo), ma con una diversa guida e foss’anche con una compagine di ministri completamente nuova, difficilmente produrrebbe un radicale cambio di passo. Questa legislatura, sino a quando durerà, si porterà dietro la condizione di stallo e l’intreccio paralizzante prodotti dalle elezioni del febbraio 2013. Paradossalmente, la spinta riformistica di Renzi, quanto incisiva lo vedremo tra breve, può produrre maggiori effetti facendo egli pressione dall’esterno, come capo legittimo del Pd, sul governo e sul Parlamento. Sta a Letta – se davvero non vuole galleggiare, come ha detto ieri durante la direzione nazionale del suo partito – trasformare questa pressione in atti e provvedimenti concreti, come gli viene richiesto a gran voce dai più diversi settori.
Se ciò accadrà, bene per tutti: per gli italiani, per l’esecutivo in carica, per Letta che continuerà a guidarlo e per Renzi che potrà concretizzare il suo accordo per le riforme con Berlusconi intestandosene gran parte del merito. Se ciò non accadrà, non serve una staffetta. Serve approvare al più presto la nuova legge elettorale e fare quel che si fa sempre in democrazia nei momenti di impasse: andare al voto e rimettersi alla volontà dei cittadini.
Lascia un commento