di Davide Parascandolo
«Parametro deciso in meno di un’ora, senza basi teoriche… Tre per cento? È un buon numero, un numero storico che fa pensare alla Trinità». Ma come? Schiere di austeri tecnici, orde di oscuri burocrati, eserciti di menti illuminate e, con tutto il rispetto, uno dei vincoli più severi tra quelli che stanno devastando gli Stati europei è ispirato dalla Trinità? Ora, che qualcosa non funzionasse come i sacerdoti dell’euro-dogmatismo tentano di negare incessantemente lo si era già vagamente intuito senza bisogno della recente rivelazione di Guy Abeille, un funzionario dell’allora governo Mitterand, circa la poco “meditata” origine del parametro del 3%. Se non ci fossero di mezzo le insensate sofferenze che questi assurdi vincoli stanno imponendo ad un intero continente, si potrebbe anche chiosare con una battuta di spirito. La realtà è tuttavia ben più preoccupante, per cui cerchiamo di mettere ordine nel mare magnum della disinformazione che tuttora regna incontrastata, generando confusione e terrorismo psicologico.
Prima di tutto però, ci preme preliminarmente sgomberare il campo da equivoci lessicali e concettuali. Una precisazione fondamentale: l’euro non è l’Unione Europea e quest’ultima non è l’Europa. Essere scettici nei confronti delle eccessive rigidità imposte dall’Eurozona non vuol dire essere dei populisti antieuropeisti, così come esprimere serie perplessità circa l’attuale assetto dell’Unione, in riferimento soprattutto alla pressoché totale mancanza di trasparenza e democrazia, non vuol dire essere dei bellicosi nazionalisti pronti ad abbracciare le armi per rimettere a ferro e fuoco il Vecchio Continente. Nella sua complessità, la questione è semplice. Se l’euro non funziona, occorre una seria riflessione sull’opportunità di poterlo eventualmente abbandonare. Se l’Unione Europea non funziona, occorre una seria riflessione sull’opportunità di doverla assolutamente riformare. Il perché appare ancora più evidente: l’unione e la concordia che retoricamente gli euro-entusiasti affermano di perseguire attraverso questa “mirabile” costruzione, rischiano in realtà di essere spazzate via proprio dalla loro ottusità ad oltranza, in quanto la crescente diffidenza che comincia a serpeggiare tra i popoli europei non è certo il frutto dei soliti populisti, ma è il risultato della stolta miopia mostrata proprio dalla “raffinata genìa” degli euro-entusiasti di cui sopra.
Andiamo con ordine. Cominciamo con il dire che il problema di questa persistente crisi non è il debito pubblico, ma il cambio fisso, unitamente alla mancanza di sovranità monetaria. Qualcuno starà già storcendo il naso, ma si ricordi che questa crisi è nata come una crisi di debito privato, aumentato drammaticamente con l’introduzione dell’euro, ed è divenuta una crisi di debito pubblico in seguito all’intervento degli Stati per ripianare le enormi voragini di liquidità delle banche (chi non fosse convinto è pregato di spiegare come mai tra i Piigs figurino Paesi, come Spagna e Irlanda, con debiti pubblici molto bassi all’inizio della crisi). Tali voragini sono strettamente correlate al suddetto aumento esponenziale del debito privato. E qui entra in gioco il cambio fisso. Con l’introduzione dell’euro e con l’erronea rinuncia alla propria sovranità monetaria, gli Stati hanno abdicato ad uno strumento fondamentale per combattere le crisi derivanti da cicli economici recessivi: la politica monetaria. Se la sovranità monetaria è lo strumento principale per immettere liquidità nel sistema con lo scopo di attuare politiche anticicliche per invertire una tendenza macroeconomica negativa, che è esattamente ciò che occorrerebbe in questo momento (qualcuno potrebbe obiettare che tale ruolo dovrebbe essere assunto dalla Bce, dimenticando tuttavia che per statuto l’unico obiettivo di quest’ultima è il contenimento dell’inflazione), la flessibilità del cambio è essenziale per scaricare uno shock e recuperare competitività. In assenza di tale flessibilità, l’unico modo per intervenire è la “svalutazione interna”, ossia il taglio dei salari. Oltre a non essere una politica etica, essa è però anche stupida perché si recupera competitività con l’estero abbassando il prezzo delle proprie merci, ma si distrugge la domanda interna andando incontro ad una vera e propria macelleria sociale.
Nella fattispecie, il meccanismo che si è ingenerato con l’adozione di una moneta di fatto straniera (la dobbiamo letteralmente acquistare sui mercati privati) e di un cambio favorevolissimo alla Germania ha fatto sì che l’economia tedesca sia cresciuta enormemente potendo sfruttare il cambio uno a uno in maniera tale da inondare i Paesi del Sud con le proprie merci. Non solo, ma per permetterci di acquistarle, le banche del Nord Europa hanno erogato prestiti allegramente, senza badare troppo alle garanzie. Il risultato è stato un indebitamento privato enorme e la contestuale crisi degli istituti di credito più spregiudicati. Peccato poi che tocchi sempre e solo a noi recitare la parte di quelli corrotti, inefficienti e inaffidabili. Il bello, si fa per dire, è che sarà con tutta probabilità proprio la Germania a far saltare il banco. Tale previsione non appare così infondata, soprattutto alla luce delle recenti difficoltà tedesche. Infatti, i produttivi ed efficienti teutonici sembrano aver fatto male i loro conti. Se impoverisci i tuoi mercati di sbocco, prima o poi tale tattica impoverirà anche te, per il semplice fatto che quei Paesi non avranno più i soldi per comprare le tue merci.
Una volta comprese queste evidenze, buon senso vorrebbe che le élites “progressiste” che ci governano ne prendano atto e invertano la rotta. Ma va. Ancora più austerità, più sacrifici, più tasse, più tagli, più disoccupazione, scatenando in tal modo una reazione a catena che rischia di sfuggire ad ogni controllo. Forse, allora, il pericoloso populista che si indigna di fronte a questa insensata carneficina dovrebbe essere preso un tantinello in maggior considerazione, piuttosto che dipinto come un cavernicolo con la clava tra le mani. Anche perché, diciamocelo chiaramente, gli argomenti dei fautori di un’eventuale uscita sono molto più convincenti di quelli degli euro-sostenitori, non foss’altro che per la mole di dati e di analisi empiriche che essi portano a sostegno delle loro tesi. In effetti, occorre ricordare che esiste una notevole quantità di autorevoli studi scientifici a sostegno di tali argomenti, soprattutto quelli che dimostrano inequivocabilmente la non applicabilità all’Eurozona della nota teoria economica delle aree valutarie ottimali (elaborata, per inciso, già nel 1961). Inoltre, gli accorati appelli dei più grandi economisti, tra cui figurano molti premi Nobel, sono stati e sono tuttora completamente e colpevolmente ignorati.
Analizziamo ora brevemente due temi su cui aleggia una disinformazione disarmante. Stiamo parlando di inflazione e mutui. Si vaticina che un’uscita dalla moneta unica comporterebbe un’inflazione devastante. Storicamente e dati alla mano, questa è una bugia. Tra svalutazione e inflazione i legami sono minori di quanto si è indotti a pensare, e le variabili economiche che influenzano questo rapporto sono molteplici. Due esempi storici su tutti: quando l’Italia uscì dallo Sme nel 1992 svalutando del 20% l’inflazione calò dal 5% al 4% nell’anno successivo; nel 2008 invece, in Polonia, lo zloty fu svalutato di quasi il 30%, con un’inflazione scesa nel 2009 dal 4.2% al 3.4%, con buona pace di Monti e bocconiani affini. Attendibili studi scientifici stimano che il coefficiente di trasferimento di una svalutazione sull’inflazione sia pari allo 0.1-0.2. Ciò vuol dire che per una svalutazione di un 20-30%, l’inflazione potrebbe passare dal 2 al 4, dal 3 al 5 e così via, e non in un giorno, ma nell’arco di un anno, salvo poi essere controbilanciata negli anni seguenti dalla probabile crescita dell’economia assicurata da un cambio nuovamente aggiustabile. Peraltro, di strumenti per contenerla artificialmente ce ne sono, si pensi all’indicizzazione dei salari o all’abbassamento delle accise. Altra atavica paura è quella legata al possibile aumento dei mutui o al deprezzamento dei risparmi. In realtà, con il passaggio al nuovo conio, si uscirebbe semplicemente con un rapporto di cambio uno a uno e tutti i crediti e i debiti regolati dal diritto interno verrebbero convertiti in maniera simmetrica, applicando il riconosciuto principio internazionale della lex monetae, in base al quale spetta esclusivamente allo Stato decidere in quale conio sono definiti i contratti ricadenti sotto la sua giurisdizione. I problemi semmai, è onesto rammentarlo, sarebbero relativi ai contratti soggetti alla legislazione straniera. In questo caso lo Stato sarebbe chiamato ad intervenire per erogare aiuti monetari e fiscali.
Gettando uno sguardo sui vincoli che ci siamo autoimposti, qualche riflessione deve essere assolutamente spesa su due autentici mostri giuridici: il Fiscal Compact e il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità). Con il primo ci siamo impegnati a mantenere qualcosa che, con tutta probabilità, non riusciremo a mantenere: rientrare del 5% all’anno per i prossimi venti anni dall’eccedenza del 60% del debito, senza sforare il limite dello 0.5% del deficit. Tradotto, ciò significa trovare ogni anno, a partire dal 2015, tra i 53 e i 54 miliardi di euro, una vera follia, considerando che qualche mese orsono non siamo stati neanche in grado di trovare un miliardo per scongiurare l’aumento dell’Iva. Il MES poi è un altro capolavoro. Meglio conosciuto come Fondo salva-Stati, questo trattato ha il potere di imporre la politica macroeconomica ai Paesi aderenti, vincolando un’eventuale intervento di aiuto all’introduzione in Costituzione (ordine puntualmente eseguito dal governo Monti) delle condizionalità previste dal Fiscal Compact. Questo Fondo ha un capitale di circa 700 miliardi di euro e l’Italia è chiamata a contribuirvi versandovi la non proprio modica cifra di 125 miliardi. Piccola postilla; finora i prestiti erogati dal MES hanno di fatto rimpinguato solo le casse delle banche tedesche, mentre l’Italia non ha neanche i soldi per ristrutturare una scuola elementare. Come se non bastasse, ci facciamo trattare costantemente come dei somari e accettiamo supinamente tutte queste illogiche imposizioni senza mai chiedere nulla in cambio. Un vero e proprio suicidio. Viene da chiedersi se i nostri parlamentari, prima di ratificare tali abominevoli trattati sancendo di fatto la condanna a morte per lenta agonia di 60 milioni di italiani, li abbiano effettivamente letti. Questa non è certo l’Europa dei popoli, l’Europa della democrazia e l’Europa del progresso. Duole dirlo, ma, se non interverranno correttivi radicali, questa sarà ricordata solo come l’Europa della più grande ecatombe sociale mai vista.
Molto altro ci sarebbe da dire, molto dovrebbe essere ancora approfondito, ma abbiamo affrontato soltanto alcuni punti salienti per far capire quanto le cose siano più complesse di come vengano in genere presentate all’opinione pubblica. Vogliamo tuttavia chiudere questa sintetica analisi con una riflessione sulla supposta democraticità di questa tanto sacralizzata Unione Europea. La democrazia, semplicemente, non c’è. Chi detiene il vero potere decisionale, nonostante i tanti tediosi orpelli retorici, è la Commissione europea, non il Parlamento, sebbene il Trattato di Lisbona abbia ampliato le prerogative di quest’ultimo. I commissari non sono eletti da noi, sono nominati dai singoli governi, e non sappiamo nemmeno chi siano. Questi burocrati, neanche molto competenti visti i risultati, esercitano un imperio assoluto su Stati e popoli, stabilendo arbitrariamente le modalità del finanziamento dei primi, e quindi del sostentamento dei secondi. La democrazia rappresentativa dei moderni ha senso solo nella misura in cui permetta ai cittadini di esercitare un seppur minimo controllo sugli uomini che assumeranno decisioni fondamentali per le loro vite. Questo diritto è attualmente aggirato, per non dire negato, e gli Stati si vedono sottrarre, con la loro complicità, fette essenziali di sovranità senza le quali uno Stato non può neanche più dirsi tale. Se si vuole davvero salvare l’Europa dalla decadenza e dallo scivolamento verso un sistema neo-feudale, occorre ripudiare totalmente gli irrazionali totem venerati dal cieco fondamentalismo economico che ci sta distruggendo.
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