di Federico Donelli
Un recente sondaggio ripreso dal quotidiano “Today’s Zaman” ha mostrato la portata delle ripercussioni avute sull’elettorato dallo scandalo di corruzione che ha coinvolto l’esecutivo turco guidato dal Primo Ministro Recep Tayyip Erdoğan. Nonostante il partito di maggioranza AKP rimanga ancora favorito in vista delle elezioni amministrative di marzo, l’incognita maggiore è data dall’insanabile frattura tra Erdoğan e la potente confraternita islamica neo nurcu guidata dal maestro Fethullah Gülen che, fino al maggio scorso, aveva appoggiato i governi AKP.
A due mesi dalle elezioni municipali e locali, la società di ricerca Veritas ha effettuato un sondaggio relativo le intenzioni di voto in quarantadue province turche, il cui esito ha indicato una significativa perdita di consenso per il partito di governo Giustizia e Sviluppo (AKP) e in maniera anche maggiore della fiducia nei confronti del suo leader Erdoğan. Il dato più eloquente non è rappresentato dalla percentuale di voto, intorno al (36,5%) che confermerebbe l’AKP primo partito, ma è il calo drastico di consensi rispetto alle elezioni nazionali di tre anni fa, quando il movimento islamico moderato di Erdoğan riuscì a sfiorare la soglia del (50%). Alla base del malessere vi è una generale disaffezione nei confronti del Premier, reo di aver gestito malamente i due episodi che hanno caratterizzato la vita politica turca degli ultimi otto mesi. Non sono piaciute le aspre reazioni alle proteste di Gezi Parki della primavera scorsa, quando, oltre a ordinare una dura repressione sui manifestanti, Erdoğan accusò non meglio identificati gruppi occidentali, governativi e non governativi, di complottare contro il suo governo. Reazioni che hanno mostrato per la prima volta una preoccupante incapacità nella gestione del dissenso da parte del leader turco, il quale, nei mesi successivi ha replicato accentrando ulteriormente il potere nelle proprie mani facendo così intravedere pericolose sfumature autoritarie. Che il deficit democratico turco esistesse ben prima delle manifestazioni di Piazza Taksim è innegabile, tuttavia tale evidenza veniva mitigata dagli indubbi successi economici e dall’altrettanto manifesto attivismo in politica estera.
La principale ripercussione avuta dagli scontri della primavera scorsa è però tutta interna al variegato universo islamista turco, con l’innesco di dinamiche politiche sfociate con la rottura tra il partito di Erdoğan e il movimento neo nurcu (Islam popolare che si rifà all’insegnamento del mistico Said Nursi) “Hizmet” (Servizio) guidato dallo studioso islamico nonché magnate Fethullah Gülen. Questi, giudicato nel 2008 da Foreign Affairs come uno dei più influenti uomini al mondo, ha criticato duramente il Primo Ministro dopo gli scontri di Piazza Taksim, ergendosi a difensore della libertà di espressione e, nello specifico, di manifestazione dei cittadini. Una condanna in parte inaspettata visto che il movimento aveva sempre appoggiato con convinzione le agende politiche dei governi guidati da Erdoğan. L’influenza e il potere di Gülen non deve però essere ristretto ai milioni di seguaci su cui può contare il movimento (solo in Turchia tra i cinque e i sei milioni) ma deve essere allargato all’impero finanziario che ruota intorno a Gülen e all’Hizmet, stimato intorno i 25 miliardi di dollari.
Le tensioni sono riaffiorate in autunno a seguito della scelta dell’esecutivo di presentare una legge che, a partire dal settembre del 2015, dovrebbe sancire la chiusura delle “scuole preparatorie” (dershani) private. Questi istituti, un terzo dei quali (circa 4000) viene gestita da affiliati all’Hizmet, offrono corsi integrativi in preparazione degli esami di ammissione alle scuole secondarie e specializzate. I dershani negli ultimi decenni hanno costituito una componente fondamentale per la confraternita neo nurcu che al loro interno ha potuto liberamente promuovere e trasmetter i valori e l’insegnamento del maestro Gülen. Uno strumento assai utile per l’ Hizmet nel raccogliere fondi e, in misura anche maggiore, nel reclutare nuovi, giovani adepti a cui infondere il proprio capitale sociale e umano.
Quando sembrava lentamente affievolirsi l’onda lunga di Piazza Taksim, è scoppiato lo scandalo di corruzione che ha coinvolto un gran numero di esponenti dell’AKP molto vicini al premier tra cui diversi ministri (Interno, Ambiente ed Economia). Un’ondata giudiziaria che ha portato alla luce corruzione, nepotismo e pratiche clientelari da sempre diffuse nell’ambiente politico e burocratico turco ma assai più gravi perché ad essere coinvolto è stato un partito che nel 2002 vinse le sue prime elezioni presentandosi come modello di legalità. Una natura rintracciabile nello stesso nome il cui acronimo AKP, se letto spezzato, “AK Parti” significa per l’appunto “partito puro/pulito”. Alla notizia dello scandalo seguirono nell’ordine: nuove proteste per le strade di Istanbul, crollo della borsa ( meno 15% in un mese), rimpasto di governo, svalutazione lira turca e nuove accuse di complotti interni promossi e finanziati da (sempre non meglio specificate) potenze straniere. In tale occasione, a parer di Erdoğan, fondamentale è risultato il ruolo di membri della magistratura e delle forze di polizia affiliati al movimento di Gülen, i quali, con il solito appoggio straniero, avrebbero orchestrato uno “tsunami” giudiziario volto a colpirlo trasversalmente coinvolgendo appartenenti alla corrente AKP a lui più vicina. Uno scandalo successivamente amplificato ad hoc dalla copertura mediatica ad esso riservata dall’impero editoriale Zaman, riconducibile allo stesso Gülen. Secondo Erdoğan questi eventi sarebbero la dimostrazione di come il movimento costituisca una minaccia al regime democratico turco. Infatti, il Primo Ministro turco ha più volte ribadito come la struttura dell’Hizmet, cresciuta in maniera esponenziale negli ultimi dieci anni, costituirebbe una sorta di “stato interno allo Stato”. Implicito in tale affermazione è il richiamo al ben più famoso “Stato profondo”, con il quale si era soliti richiamare una presunta ramificazione di forze nazionaliste inserite in posti di comando e quadri dei principali apparati pubblici. La gravità dell’accusa lanciata da Erdoğan verso il nuovo “stato nello Stato” guidato da Gülen assume un valenza ancora maggiore considerando il fatto che per la prima volta nella storia della Turchia essa venga rivolta ad un movimento che, nonostante interessi diversificati (finanziario, imprenditoriale, editoriale), rimane prioritariamente di natura religiosa.
Questi sviluppi hanno accentuato la consapevolezza di quanto il percorso di democratizzazione turco sia ancora ben lungi dall’essere realizzato soprattutto se i parametri di riferimento sono quelli richiesti dal processo di adesione all’Unione Europea, i cosiddetti criteri di Copenaghen. Elemento poco analizzato ma assai più significativo se si vuole provare a prevedere l’evolversi della situazione, sono state le reazioni e le dichiarazioni a tratti incontrollate del Primo Ministro. Sfoghi effetto di un nervosismo più profondo legato alle molte situazioni di stallo in cui versa il governo da tempo: dall’impotenza di fronte alla crisi siriana all’inesorabile attesa di segnali da parte dell’Unione Europea, passando per una riforma costituzionale, fondamentale per il futuro politico di Erdoğan, arenatasi tra i veti incrociati delle commissioni parlamentari.
La perdita di uno sponsor importante come Gülen potrebbe a medio termine (tra un anno ci sono le elezioni nazionali) costare molto caro ad Erdoğan e a tutto l’AKP. Infatti, in termini strettamente politici, la frattura con il movimento ha portato all’erosione di parte del tradizionale bacino elettorale islamico moderato. Entrambi, l’Hizmet e l’AKP, provengono da un ambiente islamico conservatore, tuttavia le loro radici sono molto diverse. Il primo è cresciuto all’ombra dei grandi movimenti politici di centro destra senza mai appoggiare apertamente un partito islamico fino all’ascesa AKP. Quest’ultimo, invece, fonda nella pluridecennale esperienza dei movimenti di ispirazione islamica guidati da Necmettin Erbakan tra cui il Milli Görüş. L’allontanamento dell’Hizmet dall’AKP viene evidenziata nel sondaggio dalla sfiducia mostrata nei confronti di Erdoğan da una consistente parte della classe media musulmana, soprattutto anatolica, storicamente vicina a Gülen e alla concezione di Islam moderno e dinamico da lui professata. Questo strato sociale ha sempre guardato con ammirazione il volto “moderato” dell’AKP, incarnato dall’attuale Presidente delle Repubblica Abdullah Gül, il quale è considerato (a ragione) più equilibrato e aperto al dialogo nei confronti degli avversari politici. Una preferenza cresciuta negli ultimi mesi, tanto che molti analisti ed osservatori si domandano se non sia ormai prossimo uno strappo tra i due fondatori dell’AKP. Ad agosto scadrà il mandato presidenziale e si capirà se Gül ed Erdoğan porteranno avanti i propri propositi di “staffetta verticale”, sulla falsa riga di quanto fatto in Russia dalla coppia Putin-Medvedev. Difficile che ciò accade senza previa approvazione della riforma costituzionale che, nelle intenzioni di Erdoğan, dovrebbe portare ad un semipresidenzialismo alla francese con ampi poteri nelle mani del Presidente della Repubblica.
Al momento l’AKP gode ancora di un buon margine di vantaggio, tuttavia resta un (20%) di indecisi, i quali voteranno in base ai singoli candidati locali. Questa componente potrebbe diventare, tra un anno, l’ago della bilancia alle tornate nazionali. Le previsioni mostrano come i due principali partiti di opposizione al momento non sembrano approfittare più di tanto dallo scandalo che ha coinvolto l’AKP. Infatti, in caso di elezioni parlamentari, il Partito Popolare Repubblicano (CHP) si attesterebbe intorno al (27%) mentre il Partito del Movimento Nazionalista (MHP) potrebbe superare di poco la soglia del (20%). Previsioni che mostrano un altro dato assai rilevante, ossia l’assenza nel panorama politico turco di una reale alternativa all’AKP e con essa anche di una personalità in grado di competere con Erdoğan.
Alla luce degli elementi analizzati, appaiono eccessivi alcuni recenti editoriali in cui viene indicata la Turchia come “grande malato” del Mediterraneo o, ancora più drasticamente, come il “prossimo Egitto”. È invece possibile affermare che, come la Turchia non costituiva un modello perfetto dodici mesi fa, non è oggi prossima a rivoluzioni o drastici cambi di regime. Piuttosto appare evidente come il paese dei tulipani stia attraversando una fase di assestamento politico, da cui, ad uscirne rafforzata e migliorata, potrebbe essere propria la sua incompleta e ancora immatura democrazia.
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