di Giuseppe Romeo
“…Puoi sapere dove va il mercato, ma non puoi sapere dove andrà una volta che ci è arrivato…” (A.Bloch)
Che i successi in economia si vedano dal rilancio industriale e dalla produttività non vi sono dubbi. In molti sono consapevoli, e probabilmente d’accordo, che un rilancio economico si poggia su alcuni, pochi fattori fondamentali attraverso i quali realizzare un’architettura produttiva tale da assicurare occupazione, reddito, una qualità della vita adeguata alle aspettative della comunità in termini di servizi (scuole, università, trasporti ecc..). Questi fattori sono competitività delle aziende, fisco equo, una pubblica amministrazione concretamente efficiente e semplificatrice, capacità di reinvestimento e di diversificazione degli utili delle imprese, tutela delle proprie peculiarità e una giusta indipendenza dalle aggressioni esterne che si risolve non nel sostegno o protezionismo dello Stato, ma nel far sì che lo Stato contribuisca, con misure interne, ad affermare la piena competizione delle sue aziende e dei suoi marchi sui mercati mondiali.
Certo, ricostruire un sistema produttivo anemizzatosi negli anni per colpa di governi poco inclini a programmare e fare i conti di cassa se non nel breve periodo, una realtà sindacale più orientata verso una lotta politica di partito che non verso il futuro dei lavoratori e un capitalismo industriale affascinato dai facili, ma sempre più spesso apparenti, guadagni di una riconversione finanziaria degli utili non più reinvestiti in produttività, hanno contribuito non poco a dipingere il quadro triste di questo Paese. Ma non solo. La necessità di fare cassa e di contenere un indebitamento progressivo dovuto all’urgenza di finanziare le attività dello Stato e sostenere una spesa pubblica dilapidata soprattutto verso il management di Stato e una politica sovradimensionata – piuttosto che distribuita verso il basso e in misura tale da allargare la base dei consumi destinandone una parte a migliorare l’efficienza della risposta pubblica nei servizi resi – ha consolidato una situazione di crisi difficilmente risolvibile nel breve periodo. Ciò per due semplici motivi. Perché quanto incassato servirà a coprire parte del debito e non sarà destinato ad investimenti. Perché non sembra esservi una politica di investimenti e di crescita delle esportazioni italiane tale da rendere finanziariamente e fiscalmente utili le entrate e ridare slancio alle aziende sostanzialmente Made in Italy, e non solo tali per etichetta. In questo momento, insomma, non credo che vi siano disfattisti ma realisti, che è cosa ben diversa. In effetti, ciò che sembra singolare è come, seppur in clima di inevitabile liberalizzazione dei mercati e di internazionalizzazione delle aziende, la politica del vendere o far acquisire quote maggioritarie di realtà italiane a terzi sia vista come una sorta di vittoria. Una vittoria, forse, perché, sul piano pratico le aziende sembrano riprendere il largo e qualcuno crede che gli utili conseguenti, così come la liquidità che si spera giunga in Italia in valute importanti – come se l’euro non fosse abbastanza forte negli “altri” mercati – possa ridare ossigeno al sistema “Italia”.
Ma come si può parlare ancora di un “Sistema Italia” se sedi legali e fiscali di società già italiane non sono più in Italia? Come si può parlare di “Sistema Italia” se la aziende vendono perché private di un credito di scopo e non sostenute da un esecutivo che non ha piani industriali da proporre o idee chiare su come indirizzare lo sforzo “italiano” alla ripresa, ma affida a società straniere – il che significa a piani industriali e logiche aziendali non italiani, tantomeno europei – il rilancio del sistema quando la ricchezza prodotta sarà gestita da chi la produce dove crede e come crede?
Ora non sembra disfattistico dire che la via fiscale extra-Italia come la scelta di una sede legale diversa non sia una scelta casuale compiuta da chi ha ben chiaro il futuro a cui rivolgersi. Un futuro dove tutto può essere messo in discussione quando legalmente e fiscalmente non vi è alcun obbligo di rendere conto al Paese che ospita le unità produttive, se non unicamente per l’applicazione delle norme contrattuali del lavoratore assunto. Così come non si può non ritenere una soluzione momentanea il “cambio di bandiera” di una compagnia aerea che pur mantenendo i colori italiani volerà per conto e per utile di altri proprietari. Proprietari che potranno scegliere qualunque modello ri-organizzativo a cui rivolgersi per gestire o, meglio, adeguare al mercato, la compagnia stessa che di italiano forse, ma non ve ne sarà certezza, avrà solo il menù di bordo.
Ora, in un modello ragionevole di dialogo tra le parti, e disponendo di esecutivi lungimiranti, la parcellizzazione di un sistema-Paese non può essere giustificata se non dalla debolezza di un governo dal momento che l’unico imperativo, da decenni, è fare cassa. Ma le casse si svuotano prima o poi e la corsa a ricercare cos’altro vendere diventerà sempre più difficile. Se il colonialismo di ieri era misurato in termini di crescita con politiche di potenza tendenti ad affermare una nazione su di un’altra ancorandone la conquista alla gestione delle risorse a vantaggio della potenza colonizzatrice, oggi le dinamiche sono mutate ma solo nelle modalità e negli strumenti: quelli economici in particolare. Non ne è mutata, però, l’essenza: ovvero, il controllare l’economia altrui gestendone gli aspetti finanziari del debito, ad esempio, sottraendone liquidità – si pensi ai Fondi Sovrani – o acquistando parti significative a prezzi competitivi di società per espandere le proprie possibilità di guadagno e, in entrambi i casi, perché no, di influenza politica. In un saggio (Saremo Colonia? Longanesi & C, Milano, 1997) interessante e lungimirante, seppur in alcune pagine la coerenza analitica fa i conti con una comprensibile lealtà politica, Piero Ottone riprendendo una definizione di Leroy-Beaulieu, afferma che una colonia “(…) è soggetta a una triplice forma di dominazione: politica e territoriale perché è assoggettata a una nazione straniera; economica, perché le risorse locali sono sfruttate dalla potenza dominante; culturale, perché importa modelli intellettuali, artistici e religiosi…”(…).
È indubbio che l’Italia ha solo politicamente affrontato eventi rilevanti per il suo futuro, lasciando il proprio “sistema” economico abbandonato a se stesso e usandolo solo in termini di bacino fiscale. Economicamente ben altre nazioni “europee” si sono cimentate nel rimodellare i propri asset societari e produttivi per affrontare al meglio la progressiva integrazione politico-economica dell’Unione Europea quanto gli effetti dell’internazionalizzazione dei mercati. Ciò, per parafrasare Ottone, ha permesso a Germania e Francia, in particolare, senza andare lontano, di mantenere una certa identità. Un’identità tale da far si che essa stessa non fosse disgiunta dalle scelte economico-industriali fatte in Patria come altrove (si pensi solo agli investimenti e alle acquisizioni condotte da società francesi di una parte cospicua solo dell’alimentare italiano e della grande distribuzione). Per l’autore citato il limite della fine delle abilità industriali italiane era da individuarsi nella debole capacità organizzativa. In realtà la capacità organizzativa dipende dagli obiettivi che si vogliono conseguire poiché è su questi che si modella ..l’organizzazione. Per fare questo ci vuole un piano e una politica. Piani e politiche che l’Italia non ha mai avuto preoccupata di svendere e far gestire ad altri ciò che i governi e il management espresso dalle forze politiche che li componevano non sono stati capaci di fare. Forse l’individualismo, nell’incipit di Ottone, potrà aprire spazi agli italiani in sistemi sovranazionali. Ma l’individualismo non fa sistema se è espresso dal singolo per egoismo o da chi, per cosiddette ragioni di governo, semplifica scelte e processi per vincere una vittoria momentanea. Tutto questo non fa sistema, almeno non fa “Sistema Italia”, ma favorisce sistemi e politiche altrui..
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