di Davide Parascandolo

referendumIl 9 febbraio ha avuto luogo in Svizzera l’ormai noto referendum “contro l’immigrazione di massa”, promosso dal partito antieuropeista, conservatore e nazionalista dell’Unione democratica di centro (Udc) e appoggiato dalla Lega dei Ticinesi. Osteggiavano l’iniziativa il Governo, il Parlamento, i sindacati e il mondo dell’economia e della finanza. Il risultato finale fotografa un Paese spaccato, con la Svizzera francese e le maggiori città tendenzialmente contro, ma con quella italiana e tedesca a favore, con i sì che nel Canton Ticino hanno raggiunto il 68%. Entro tre anni l’indicazione referendaria dovrà tradursi in un provvedimento legislativo e il presidente della Confederazione, Didier Burkhalter, ha già dichiarato che nelle prossime settimane il suo governo reimposterà i rapporti con l’Ue e che un disegno di legge sull’immigrazione verrà presentato entro l’anno. Il successo della consultazione popolare, sebbene non schiacciante (si è pronunciato a favore il 50,3% dei votanti) apre prospettive le cui conseguenze vanno però ben al di là dei confini della Confederazione svizzera.

Nella fattispecie, l’esito referendario pone un freno inaspettato ad uno dei pilastri dell’Unione, quello della libera circolazione delle persone, assicurato da un accordo siglato con la Svizzera il 21 giugno 1999, intesa entrata poi in vigore il 1° giugno del 2002 e rinnovata nel 2009 con la previsione di essere estesa anche ai cittadini romeni e bulgari, seppur con alcune clausole di salvaguardia. Berna fa parte inoltre dell’Associazione europea di libero scambio e ha ratificato anche gli accordi di associazione al Trattato di Schengen e al Sistema Dublino in materia di asilo. L’insieme di tali patti dovrà ora essere modificato alla luce dell’inserimento in Costituzione dell’articolo 121, il quale imporrà un tetto massimo per gli stranieri e contingenti annuali per i permessi di soggiorno che includeranno anche i richiedenti asilo, previsione peraltro in contrasto con le disposizioni della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, ratificata anche dallo stesso governo elvetico. Un capitolo delicato è poi quello inerente i lavoratori frontalieri, ovvero quei cittadini dell’Unione che lavorano in Svizzera pur risiedendo in uno Stato dell’Ue. Il principio di preferenza degli svizzeri e del primato degli interessi globali dell’economia elvetica introdotto dal referendum, oltre a configurare una possibile violazione del principio di non discriminazione, avrà senz’altro ripercussioni negative sui frontalieri medesimi, spesso accusati (soprattutto i circa 60 mila italiani) di sottrarre opportunità lavorative agli svizzeri accettando salari ridotti. Su un totale di 8 milioni di abitanti, in Svizzera gli stranieri sono il 23,3%, con un aumento notevole dei flussi provenienti dall’Europa del Sud a seguito dell’acuirsi della crisi, e con un saldo migratorio che ha raggiunto la quota di 77 mila unità all’anno. I lavoratori stranieri rappresentano attualmente il 37% degli occupati del settore secondario e il 26% del terziario.

Gli effetti negativi sui rapporti con l’Unione non tarderanno a palesarsi e alcuni sono già evidenti. Bruxelles ha di fatto provveduto immediatamente a sospendere il negoziato sull’elettricità che avrebbe permesso alla Svizzera di utilizzare le reti comunitarie. I 28 rappresentanti degli Stati membri hanno inoltre tolto alla Commissione il mandato negoziale attraverso cui addivenire alla stipula di un accordo quadro sul cosiddetto Trattato istituzionale, il quale avrebbe dovuto inglobare in un unico corpus normativo tutti i precedenti accordi bilaterali in essere tra l’Unione Europea e la Svizzera. Questi sono chiari segnali del fatto che Bruxelles pare intenzionata a rimettere in discussione non soltanto il capitolo sulla libera circolazione dei cittadini, ma anche tutti gli altri accordi economici bilaterali, in ottemperanza alla cosiddetta “clausola della ghigliottina” in base alla quale, dovesse cadere una delle intese siglate dopo l’accordo storico del ’99, decadrebbero automaticamente anche tutte le altre. La Svizzera è il quarto partner commerciale per l’Unione, mentre quest’ultima è il primo per Berna, rappresentando il 78% delle sue importazioni e il 57% delle sue esportazioni. Già si fanno le prime previsioni su quello che potrebbe accadere e la Svizzera potrebbe vedersi esclusa da molti progetti di vitale importanza, quali la partecipazione a programmi di ricerca europei (Horizon 2020), lo sviluppo di reti energetiche, i programmi Erasmus e molto altro ancora. Saranno più complesse poi le procedure relative alle gare d’appalto e lo stesso comparto dell’export svizzero potrebbe subire ricadute estremamente negative. A tal proposito, gli economisti del Credit Suisse prevedono un decremento del PIL dello 0,3% nel giro di tre anni a causa del previsto contingentamento dei lavoratori, il quale potrebbe comportare in breve tempo la perdita di 80 mila posti di lavoro, in maggioranza qualificato.

Si teme ora un’escalation in tutta Europa, con il Partito del Progresso norvegese (ricordiamo che, pur non essendo un membro dell’Ue, la Norvegia appartiene allo Spazio economico europeo e aderisce al Trattato di Schengen) e il Partito della Libertà austriaco che hanno accolto con entusiasmo il pronunciamento referendario elvetico, dichiarandosi favorevoli ad una restrizione dei flussi migratori. Un problematico banco di prova sarà tra l’altro rappresentato dall’impossibilità della Svizzera di estendere alla Croazia, che dallo scorso luglio è entrata nell’Unione, i trattati bilaterali che tuttora sono in vigore con gli altri Paesi membri. È evidente, infatti, che Bruxelles non potrà permettere l’esistenza di discriminazioni tra i suoi cittadini. Tuttavia, come abbiamo accennato all’inizio, la preoccupazione maggiore che aleggia all’interno dei palazzi del potere europeo concerne lo scenario che potrebbe scaturire dopo il voto continentale del prossimo maggio, con il precedente svizzero che potrebbe essere solo l’antipasto di una violenta ondata di euroscetticismo e di protezionismo nazionale, frutto della profonda insoddisfazione circa i metodi arroganti e autoreferenziali con cui l’Unione impone le proprie regole economiche, bancarie e finanziarie agli Stati e ai loro rispettivi popoli. La protervia dell’Unione si evince anche dalle reazioni e dai commenti sprezzanti seguiti ai risultati del referendum, atteggiamenti che dimostrano una scarsissima considerazione per i malumori che le politiche europee continuano a generare, senza una seria riflessione circa le reali cause di questo moto di rigetto. Non possiamo fare a meno di notare, infine, come appaia alquanto curiosa questa sorta di legge del contrappasso a causa della quale ora si critica ferocemente il risultato di una delle pronunce più autenticamente democratiche, quella referendaria. In fin dei conti, caro Barroso, questa è la democrazia, bellezza!

 

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