di Salvatore Sechi

CanaliVerità storica (con le regole della metodologia della ricerca che comporta) e verità politica (cioè l’interesse di partito) non solo raramente coincidono, ma il più delle volte sono, anzi, antitetiche.

Fanno parte di questa realtà le domande che seguono. A stimolarle è stata la lettura del migliore saggio, da molti anni a questa parte, di discussione storiografica pubblicato sui rapporti tra Gramsci e Togliatti. Mi riferisco a Mauro Canali, Il tradimento. Gramsci, Togliatti e le verità negata (Marsilio, Venezia 2013).

Tali domande, spesso retoriche,sono rivolte in primo luogo a due categorie di persone. In primo luogo agli intellettuali (migliaia) che dal 1950 hanno fatto parte dell’Istituto (poi Fondazione) Gramsci. In secondo luogo a chi (come il nuovo gruppo dirigente del principale partito della sinistra formatosi intorno a Matteo Renzi) sarà chiamato in tempi molto rapidi a decidere:

1. se abbia senso che il Partito democratico, come il Pci a suo tempo, continui ad avere un braccio secolare nell’attività culturale(in seno lato: dalla ricerca alla didattica).

Detto diversamene è venuto il momento di chiedersi che utilità abbia alimentare una storiografia di partito, imitando i rituali e le liturgie dello Stato (al quale le strutture delle organizzazioni comuniste e post-comuniste finora sono sempre state simili),

2. se, invece, non essendo il nuovo segretario del Pd di cultura e rito comunista, non sia opportuno liberarsi una volta per sempre di queste sopravvivenze del leninismo da tempo di guerra.

Renzi dovrebbe rinunciare ad avere un vero e proprio organo da Minculpop, come in diversi momenti (anche se in maniera mai banale) è stata la Fondazione Istituto Gramsci.

A livello regionale è finanziata direttamente(nel senso che dirotta ad esso contributi avuti per l’attività politico-elettorale) dal gruppo consiliare del PD (è il caso,per fare un esempio, dell’Emilia Romagna in questi giorni sotto inchiesta da parte della magistratura proprio per questi usi “impropri”).

A livello nazionale la dirige, mi pare dal 1991, Giuseppe Vacca. E’ il più prolifico e appassiona- to cantore del togliattismo. Molto di più,per intenderci, di uno studioso come Roberto Gualtieri (allievo del migliore storico comuni sta, Giuliano Procacci, e politicamente legato a Massimo D’Alema) e dell’imperturbabile torinese Aldo Agosti;

3. se non sia il caso di porre fine, all’interno del Gramsci, a direzioni gerontocratiche (come quella prima citata di Vacca), mandati di rappresentanza che sembrano dei vitalizi, privilegi da ius primae noctis cartacei (goduti dal presidente e dai dirigenti) nell’accesso ai documenti, con conseguente esclusione degli studiosi non allineati col Pd dalla consultazione di parti dei numerosi archivi .

Come si può ammettere, se non in gestioni padronali e culture casarecce, che il Gramsci, grazie agli originalissimi criteri stabiliti da chi lo dirige, non conceda la facoltà di fotocopiare le carte? E’ solo possibile riprodurle a voce (su un registratore) o ricopiarle a mano (sono i due sistemi che nel mondo scientifico non hanno il minimo valore di prova!).

Come è possibile che un organo di ricerca dal Pci intitolato ad Antonio Gramsci non abbia fatto nulla per precisare la portata, e quindi la natura (di carattere strategico), delle divergenze esplose a metà dell’ottobre 1926 tra il segretario del Pcd’I (appunto Antonio Gramsci), e il suo compagno (al pari di lui membro dell’Internazionale Comunista, il Cominform), Palmiro Togliatti?

Riguardavano le prospettive della rivoluzione in Occidente dove il capitalismo, la ricchezza della società civile, il regime di democrazia politica e il cd americanismo imponevano un’analisi ravvicinata diversa dai catechismi catastrofistici del Comintern. È attraverso Gramsci (di cui aveva letto i Quaderni) che uno stalinista indefesso come Togliatti capirà, tardi, molto tardi, che dal collasso dei regimi reazionari di massa si poteva uscire solo con governi di coalizione estese ai comunisti, le grandi intese degli anni Trenta e Quaranta.

Com’è possibile che le centinaia di intellettuali alternatisi nel comitato scientifico e nei gruppi di lavoro tematici dell’Istituto Gramsci dal dopoguerra ad oggi, con poche eccezioni, non abbiano ritenuto un loro dovere, politico e civile, ma anche etico, accertare come andarono le cose?

Mi riferisco alle vicende dell’inverno 1926 quando Togliatti nasconde a Stalin e a Bucharin, come a Trotsky e a Kamenev (cioè alla maggioranza e alla minoranza del Pcus) l’invito a preservare, nelle differenze, l’unità del gruppo dirigente bolscevico e a bandire l’intimidazione e la sopraffazione dalla lotta politica interna.

A questo atto discrezionale di Togliatti fece seguito una vera e propria separazione o, se si preferisce, uno stato di incomunicabilità tra i due principali dirigenti, mai più rimarginata. “La polemica con Togliatti, scrive Canali, fu l’ultimo atto politicamente rilevante compiuto da Gramsci in stato di libertà e l’ultimo contatto diretto tra Gramsci e Togliatti. Dal carcere Gramsci non cerca mai di riallacciare contatti diretti con Togliatti. La vicenda lasciò un segno profondo nei rapporti tra Gramsci e il gruppo dirigente staliniano. Essa non fu mai dimenticata. Per la diffusione di questo pregiudizio tra le classi dirigenti del movimento comunista internazionale, che pesò su Gramsci fin oltre la sua morte, grande responsabilità ricade sull’opera to di Togliatti, che non si impegnò adeguata mente a contrastarla”.

Come mai non fece sorgere in tanti studiosi e ricercatori del Gramsci un barlume di interesse il fatto che l’intellettuale e uomo politico sardo (ormai morente nella clinica romana Quisisana) avesse ordinato a Tatiana di consegnare gli autografi dei Quaderni alla moglie Giulia, che non era certo in grado di apprezzar ne fino in fondo l’importanza? Come mai non si è voluto approfondire, lasciandola dirimere a pochi studiosi, l’accusa pesantissima rivolta da Gramsci a Togliatti di avere boicottato ogni tentativo di liberarlo dal carcere?

Non si pretende che chi lavora al Gramsci, anzi lo dirige, debba essere gramsciano, e quindi una sorta di arco teso mobilitato permanente mente a difenderne le idee e le proposte (cioè un custode dell’ortodossia). Si chiede solo di capire come mai abbia prevalso una sorta di vera e propria vocazione a prendere capello contro di lui, privilegiando sempre le scelte di Togliatti, cioè di un compagno diventato il postino di Stalin e una persona del quale l’ex segretario del Pcd’I diffidò profondamente.

Come mai dalla Fondazione che reca il suo nome non sono mai state prese in considerazione le opzioni che, se fosse vissuto, gli si sarebbero potute aprire?

C’è una riflessione di Biagio De Giovanni (nei saggi La nottola di Minerva, Roma 1989, e Dopo il comunismo, Napoli 1990) che non può essere lasciata cadere. È ragionevole pensare che le posizioni di Gramsci, una volta abbandonato il partito che aveva fondato e in cui non si riconosceva più, e l’amicizia con Piero Sraffa (approdato al socialismo riformista inglese e milanese), avrebbero potuto scivolare verso il recupero della democrazia politica alla Tocqueville, ad una concezione del capitalismo e del mercato alla Stuart Mill e ad una fuoruscita dal marxismo-leninismo in direzione del grande revisionismo europeo, à la Berstein.

In altre parole il “povero sardo emigrato” (come lo chiama Croce) avrebbe potuto accedere ad una domanda di riformismo democratico-socialista profondamente nutrita di cultura liberal-democratica.

Si coglie in lui il ripudio della fuoruscita insieme dalla democrazia politica e dal capitalismo teorizzata da Marx e riproposta con eguale furore determistico dal Comintern. E si capisce che vengono prese le distanze anche dall’organizzazione del partito sul modello staliniano scelto da Togliatti.

Gramsci vuole mutare il mondo, non rifarlo. Pertanto, riconosce che l’avversario del movimento operaio è “l’erede della modernità”. Di qui la sua estrema complessità per poterlo definire schematicamente, come avveniva, invece, nei paradigmi del Comintern, e quindi l’estrema difficoltà di combatterlo. Soprattutto quando l’intento era non di riformarlo, ma di ricostruirlo avendolo prima spazzato via.

Togliatti nell’interpretazione del capitalismo resta vittima consenziente della teodicea laica dell’Internazionale, con una grande subalternità culturale. La sua assoluta identificazione in Stalin e nello stalinismo si può misurare in quanto introduce in seno alla vita, anzi nella mentalità profonda, del partito, quello che è stato chiamato “giustificazionismo storico-politico” (De Giovanni), per cui la scelta fatta era sempre quella giusta. Alla ricostruzione puntuale, coraggiosa, filologicamente impeccabile (come sempre) di Mauro Canali si potrebbe aggiungere una domanda che peraltro non mostra di ignorare. La togliattizzazione di Gramsci, il falso sul rapporto di continuità tra i due leaders, avrebbe potuto essere inscenata senza il conformismo (se non la si vuole chiamare trahison del clercs o ruere in servitium, cioè vocazione servile, propria degli intellettuali quando si accodano ai politici) dei dirigenti del Gramsci e della ruota dei loro collaboratori?

Non si vede quale ragione si possa opporre a un provvedimento che si palesa come indispensabile e urgente, cioè la rottamazione del presi dente, del direttore, del comitato scientifico attualmente in carica presso la Fondazione. Anche per evitare una storia che si ripete dall’inizio degli anni Cinquanta. Consule Togliatti, si nominò alla testa del Gramsci uno stalinista inossidabile e un fervido sostenitore del dovere della manipolazione dei documenti(dello stesso Gramsci) come Ambro gio Donini.

Il pericolo che si corre oggi è il seguente:cioè se venissero sostituiti i ragazzi di Massimo D’Alema nei locali della Fondazione si rischia di vedere accomodarsi sui loro scranni e scrivanie quanti hanno dedicato saporose interviste e profili biografici in sollucchero a Pierluigi Bersani. Grazie alla distillazione dei loro pessimi consigli per una nuova ondata di trasformismo hanno condannato questo buonuomo ad una becera sconfitta. Il rischio non è infondato. Ma mi pare il caso di ricordare che in oltre un centinaio costoro, per onorare virtù e vizi del centralismo democrati- co hanno da Bersani ottenuto laticlavio e medaglietta. Non potrebbero starsene paghi e accontentarsi della mercede ricevuta?

L’inesausto lavorio di censure, cesure, omissioni ecc. sui manoscritti di Gramsci, a cominciare dalle Lettere dal carcere, che Canali descrive e smonta efficacemente, è stato teso a non far emergere le differenze di concezioni politiche esistenti tra i due fondatori del Pcd’I. Gramsci sembra proteso verso una concezione liberale del partito e dello Stato, dove il dibattito deve essere trasparente e valere come un diritto e non una concessione. E si sente maturare un’idea (non solo embrionale, anche se non sviluppata adeguatamente) come quella che il capitalismo si potesse innervare nella democrazia politica e rendere la società civile dei paesi occidentali più esigente(in quanto più ricca, cioè capace di far crescere altri luoghi di costituzione della volontà collettiva rispetto al macrocosmo del partito), meno refrattaria di quella prevalsa in paesi come la Russia. Sono gli elementi che sembrano incamminarlo verso una concezione di tipo liberale-radicale.

A ragione Biagio de Giovanni ha ravvisato il farsi strada nel distacco dallo stalinismo nei Quaderni e nella polemica durissima con Togli atti l’emergere di posizioni, non ancora ben definite, che portavano Gramsci verso la valorizzazione della democrazia politica, cioè un punto in Marx rimasto non risolto, e in Lenin semplicemente deplorato. Si sente venire in superficie, nella sua riflessione, come un aroma ancora indefinito, una domanda di rivoluzione liberale, una tematica revisionistica che da Stuart Mill sospinge verso Toqueville, da Berstein allo stesso Croce. Quest’ultimo indicò l’essenza del liberalismo “nella concezione sommamente storica della libera gara e dall’avvicendarsi dei partiti al potere, onde, mercè l’opposizione, si attua, quasi graduandolo, il progresso” (cfr. Il Manifesto degli intellettuali antifascisti).

 


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