di Danilo Breschi

antipoliticaDa alcuni anni si parla molto di “antipolitica”. L’Italia pare persino essere una delle patrie elettive, o comunque una sede privilegiata di manifestazione ed espressione di un simile fenomeno. Le prossime elezioni europee potrebbero registrarne il trionfo sotto forma di populismo antieuropeista. Antipolitica è sinonimo di populismo? È fenomeno nuovo o vecchio? Ci si interroga spesso sulle sue origini, se si tratti di fenomeno assai risalente o di recente conio. Per provarne a discutere con un minimo di cognizione di causa, può tornare utile un volume uscito ormai sei anni fa a cura di un giovane ricercatore di storia delle dottrine politiche che insegna all’Università di Parma, Matteo Truffelli (L’ombra della politica. Saggio sulla storia del pensiero antipolitico, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008). Tra i molti meriti ascrivibili a questo lavoro, che resta a distanza di alcuni anni strumento di orientamento conoscitivo particolarmente utile, vi è l’intenzione, peraltro ben riuscita, di illuminarci su alcuni tratti del pensiero politico occidentale interrogandone l’ombra, il lato oscuro o, per meglio dire, il suo opposto e la sua negazione. La sfida ingaggiata dall’autore di questo agile e denso volume è infatti consistita nel proporre una riflessione e un’analisi sistematica di un termine-concetto assai sfuggente, per definizione asistematico “e confinante più con il confuso stato d’animo che non con una costruzione teorica compiuta e coerente”.

L’idea di fondo di Truffelli è che l’antipolitica presenti un nucleo forte, sostanzialmente costante e coerente, di argomentazioni, idee e retoriche che si è affacciato alla storia del pensiero politico occidentale a partire almeno dalla Rivoluzione francese. Ha quindi contribuito in modo significativo a modellare la “forma mentis” del liberalismo ottocentesco, almeno della sua versione anglo-francese, e ha senz’altro alimentato le ideologie della prima metà del Novecento. Truffelli condivide la definizione dell’antipolitica formulata da Barr Hindess, il quale la descrive come una “tentazione perenne” che accompagna la politica sin dalla sua riconfigurazione teorica in età moderna, almeno dal XVIII secolo.

Una così risalente genealogia non toglie il fatto che negli ultimi vent’anni il fenomeno dell’antipolitica abbia acquisito una visibilità e una centralità nel funzionamento dei sistemi politici occidentali come mai prima era riuscito a fare. Parrebbe pertanto azzeccata la definizione dei nostri tempi come “epoca dell’antipolitica”, contraddistinta da “un crescente senso di disaffezione, disorientamento e disprezzo per la politica da parte dei cittadini”.

Diversi e anche opposti i giudizi sulla natura e la funzione dell’attuale antipolitica, in questo caso da intendersi più come filone concettuale che non come sentimento e stato d’animo. Secondo alcuni, essa è solo la segnalazione della “inadeguatezza delle risposte” che la politica statuale ha rivelato negli ultimi decenni a fronte di “istanze emergenti da una società globalizzata e iperindividualista” e, in tal senso, svolge un ruolo positivo, a suo modo “ricostituente” un certo ethos democratico-partecipativo. Secondo altri, invece, l’antipolitica è figlia delle delusioni, inevitabili, provocate dal fallimento di una stagione che ha contrassegnato gran parte del Novecento, in cui sono state affidate alla politica promesse quasi salvifiche, conferendo a Stati e partiti il compito prometeico di emancipazione dell’uomo da ogni forma di subordinazione all’altro uomo e di realizzazione di paradisi terrestri. In tal senso la diffusa antipolitica sarebbe stata una eterogenesi dei fini, e non sarebbe pertanto un caso che sentimenti antipolitici siano sorti anzitutto nelle cosiddette “democrazie popolari” dell’Est Europa, ma anche nell’Italia dell’immediato secondo dopoguerra, all’indomani di un ventennio, quello fascista, dominato dalla politicizzazione di massa imposta da un Partito-Stato. In tal caso, però, l’antipolitica non nascerebbe dalla intenzione di negare la politica, bensì dalla pretesa di sostituirla.

In ogni caso, l’antipolitica è una retorica, o meglio una “folla di discorsi e retoriche”, come suggerisce di definirla il politologo Alfio Mastropaolo. Una congerie di discorsi e retoriche che si nutre degli errori della politica, dei momenti di debolezza e fragilità del sistema politico liberal-democratico, spesso connessi a crisi economiche o a scandali che travolgono la classe politica e ne mostrano la scarsa o nulla moralità pubblica, come i casi di corruzione sempre più ricorrenti e regolarmente amplificati dai mass media.

Le famose “promesse non mantenute” della democrazia di cui parlava Norberto Bobbio, e “forse non mantenibili”, aggiunge Truffelli, sono alla base della diffusione dei sentimenti antipolitici, ma non ne costituiscono la matrice unica e prevalente. La convinzione del giovane ricercatore dell’Università di Parma è che, appunto, l’antipolitica sia una componente “intrinseca” della politica moderna stessa, ancor prima e ancor più che essere una conseguenza della sua crisi o della sua estinzione a vantaggio di soluzioni di tipo tecnocratico.

Ecco pertanto che attraverso lo studio dell’antipolitica si può tentare una ricostruzione, a suo modo originale e creativa, della storia della politica moderna. Ad esempio, l’intera cultura politica nordamericana sarebbe, a detta di alcuni studiosi come Erwin A. Jaffe (1928-2008), antipolitica sin dalla sua nascita, perché ispirata dalla teoria politica lockiana. John Locke è così riletto come capostipite di un liberalismo che, per costruirsi nel corso del Sei-Settecento in opposizione alle teorie assolutistiche propagandate dalle corti sovrane di mezza Europa, ipotizza uno stato di natura sostanzialmente autosufficiente, già quasi autoregolato. Gli ideali dell’autogoverno della società civile e dell’autorealizzazione personale (“self-fulfillment”), fino al mito statunitense del perseguimento della felicità (“pursuit of happiness”), si connoterebbero dunque come ingredienti fondamentali di un successivo sviluppo in senso antipolitico della cultura politica nordamericana e, più in generale, della tradizione liberale di ascendenza anglosassone. I nomi di Thomas Paine e Adam Smith saltano subito alla mente del lettore informato.

Se pensiamo a quanto non pochi rivoluzionari francesi a fine Settecento deprecassero la faziosità insita nella dimensione partitica e aspirassero all’unità della volontà generale, di una comunità popolare presuntivamente armonica perché pre-politica, viene da pensare, con Truffelli, sia che l’elaborazione antipolitica è alle origini della politica moderno-contemporanea, sia che essa poggia su miti edenici e monistici di ascendenza teologica, dunque anche pre-moderni, e non solo sei-settecenteschi, laici e liberali.

Anche il giovane Charles Peguy, all’epoca in cui era ancora socialista, pur atipico, constatava come la libertà dei moderni favorisse una logica di similitudine e differenza simultaneamente sviluppantesi: “Più vado in giro più scopro che gli uomini liberi e gli avvenimenti liberi sono variegati. Sono gli schiavi e le servitù e gli asserviti a non essere variegati, o a esserlo meno. Le malattie, che in un certo senso sono servitù, sono molto meno variegate dello stato di salute. Quando gli uomini si liberano, quando gli schiavi si rivoltano, quando i malati guariscono, non avanzano verso non so quale unità, ma verso variazioni crescenti”.

Di fronte alla lucida e serena constatazione di questo fenomeno epocale, di tendenza universale e irreversibile, la politica come soluzione unica, dunque semplificatrice e riduzionistica, nella forma costretta dell’apparato burocratico-legale di uno Stato nazionale (od europeo), non può che infastidire, nella migliore delle ipotesi, o indignare sino alla reazione feroce e violenta, nella peggiore di esse, la media degli uomini (e donne) della modernità oramai pienamente dispiegata, dunque del tutto secolarizzata e individualistica. Piaccia o no, è con la logica della modernità avanzata e del suo stesso processo di avanzamento, la modernizzazione, che la critica all’antipolitica dovrà fare i conti. Dovrà farla l’intera politica dello Stato moderno, superato da quella che è una sua stessa creatura concettuale, la “società civile”, la cui evoluzione ne ha messo a nudo l’origine d’antico regime, e precisamente nell’assolutismo monarchico. Per fronteggiare l’antipolitica non basta la contro-indignazione, ci vuole molta sana riflessione, impietosa ed equilibrata al contempo, sull’intero assetto culturale, inteso come forma mentale e valori di comportamento diffuso, nel quale noi tutti italiani e occidentali da decenni viviamo.

Staccare l’ombra dal corpo non è facile, la si può solo far coincidere stendendosi al suolo in una posizione che può ricordare quella del morto o, al più, dell’inerte. Anche Peter Pan cercò di recuperarla una volta smarrita, e l’adolescente Wendy l’aiutò a ricucirsela addosso. Nemmeno Peter Pan poteva farne a meno, forse proprio perché, pur capace di volare, era anche il “ragazzo che non voleva crescere”. Chissà! Teniamone conto nel caso in cui l’antipolitica fosse davvero l’ombra della politica, quella moderna, fondata sul dogma della libertà individuale.

 

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