di Luca Ozzano
Dopo alcuni decenni di quiescenza, le religioni sono ritornate in modo evidente a giocare un ruolo nelle relazioni internazionali, almeno a partire dalla rivoluzione islamica in Iran nel 1979. Nei decenni successivi questo ruolo è stato confermato dall’influenza della Chiesa cattolica sulla caduta del blocco comunista, da quella della destra cristiana sulla politica estera americana, e da molti altri eventi e fenomeni, non ultimo l’11 settembre e le sue conseguenze.
Data la loro evidenza, ci si aspetterebbe che questi processi si siano rispecchiati in una letteratura accademica corposa ed esaustiva. Non è però questo il caso. Mentre sul ritorno della religione nella sfera pubblica interna degli stati si sono occupati autorevolmente specialisti come Gilles Kepel (con la sua tesi della ‘rivincita di Dio’) o Jose Casanova (con la tesi della deprivatizzazione della religione) già a partire dalla fine degli anni Ottanta, la disciplina delle relazioni internazionali è stata singolarmente sorda a questi sviluppi. Questo non è un caso, dal momento che la disciplina ha tra i propri capisaldi i ‘pilastri westfaliani’ (che, appunto, escludono la religione dal novero delle questioni trattabili nei rapporti internazionali) ed è stata definita, a questo proposito, “la più secolarizzata delle scienze sociali”.
Di conseguenza, non soltanto i paradigmi interpretativi focalizzati in modo prevalente sui rapporti tra stati-nazioni, come il realismo, ma anche approcci più aperti al ruolo degli attori non statuali, come neo-liberalismo istituzionale e costruttivismo, hanno per lo più ignorato il ritorno della religione almeno fino a tutti gli anni Novanta. Solo l’11 settembre è riuscito a cambiare questo stato di cose, aprendo opportunità sia accademiche sia editoriali per lavori che si occupassero del ruolo della religione, e degli attori religiosi, negli affari internazionali. Hanno così visto la luce le prime trattazioni sistematiche del tema, sia in un’ottica di filosofia politica (come nei lavori di Fabio Petito e Scott Thomas), sia di politologia in senso stretto (in particolare nelle opere di Jeff Haynes e Jonathan Fox).
Global Religions and International Relations. A Diplomatic Perspective di Pasquale Ferrara (Palgrave 2014) si inserisce in questa riflessione, prendendo in considerazione una serie di problematiche connesse al ruolo giocato (o potenzialmente giocabile) da valori e attori religiosi nella sfera internazionale. Il contributo è particolarmente interessante dal momento che l’autore è anche un diplomatico di professione, che ha vissuto in loco molti degli eventi sopra citati (dall’11 settembre ai negoziati con i talebani afghani), e che ha parallelamente sviluppato una riflessione accademica su di essi. Il volume, che raccoglie una serie di lavori e presentazioni effettuate a convegni nel corso degli ultimi anni, è il risultato di tali esperienze ed elaborazioni.
Nel suo complesso, il libro è strutturato in due parti, la prima che si occupa delle implicazioni teoriche del rapporto tra religione e relazioni internazionali e la seconda dedicata ad alcuni casi studio ed implicazioni empiriche.
Dopo un’introduzione in cui si constata la difficoltà di integrazione della religione nei paradigmi ‘tradizionali’ della disciplina delle relazioni internazionali, e la necessità pertanto di pensare nuovi paradigmi, l’autore dedica il primo capitolo ai diversi modi in cui il fattore religioso può essere concettualizzato in relazione al sistema internazionale. In primo luogo, questo è possibile con un approccio ‘classico’, quasi realista, che pensi la religione come un fattore che interviene nei rapporti tra stati. Tuttavia, il sacro può essere posto in relazione in modo più radicale con i fondamenti stessi del sistema internazionale, giungendo fino ad ipotizzare un suo utilizzo per la creazione di un sistema internazionale più ‘equo’ e ‘democratico’, alternativo a quello post-westfaliano caratterizzato dall’anarchia e dall’equilibrio di potenza. Un altro modo di pensare il ruolo internazionale della religione è attraverso la sua dimensione transnazionale, che si esplica con il ruolo ormai globale di diversi attori religiosi – come conseguenza dei processi di migrazione, ma soprattutto della globalizzazione delle culture e dell’informazione – che stanno ricreando su scala globale, e bypassando i confini degli stati, le “comunità immaginarie” di cui parlava Benedict Anderson. Infine, la religione può essere cruciale nei processi di inclusione/esclusione, legati al concetto di comunità universale della razza umana, in contrapposizione a localismi e nazionalismi.
Il secondo capitolo, di carattere più spiccatamente politologico, si occupa di stabilire il rapporto della religione con i tre ambiti ‘canonici’ della scienza politica: polity (comunità politica), politics (politica come processi e istituzioni) e policy (politiche pubbliche). Più in specifico, l’autore esamina poi due temi in cui il fattore religioso potrebbe avere un impatto in senso positivo sulla governance globale: quello dei beni pubblici globali (global public goods) e del loro riconoscimento e quello della sicurezza umana.
A partire dal terzo capitolo del libro, come già accennato, l’autore passa ad occuparsi di temi più empirici, prendendo innanzitutto in considerazione quello che è stato il perno principale della riflessione su religione e relazioni internazionali nell’ultimo decennio: il ruolo dell’Islam. A questo proposito, Ferrara inizia smontando in modo estremamente salutare alcuni luoghi comuni diffusi non solo nella stampa divulgativa, ma persino in una parte della letteratura accademica: in primo luogo quello della presunta monoliticità dell’Islam e della sua irriducibile alterità rispetto alla cultura occidentale. Da un lato, fa notare, una serie di studi hanno dimostrato che non esiste un unico Islam, ma che quest’ultimo, come tutte le grandi religioni e culture – inclusa quella cristiana – è caratterizzato da una grande varietà e multivocalità interna. In parallelo, la frequenza e la sistematicità, nei secoli scorsi, dei rapporti tra il Medio Oriente e l’Europa cristiana rendono problematico pensare le due culture come mutuamente antitetiche ed esclusive, in particolare in un mondo globalizzato come quello di oggi, in cui, secondo l’autore, tutte le civiltà dovrebbero essere considerate come hyphenated (meticcie). Questo discorso prosegue, consequenzialmente, con un accenno ai paesi arabi che stanno attraversando un difficile percorso di transizione democratica, nei quali un Islam politico democratico potrebbe svolgere secondo l’autore lo stesso suolo positivo di stabilizzazione democratica svolto in Europa nel dopoguerra dalle forze cristiano-democratiche. Questo capitolo si conclude con un’analisi del caso studio del Pakistan, sia in chiave storica, sia in relazione ad alcuni fenomeni già analizzati in senso teorico, come quello degli attori religiosi transnazionali.
Il concetto di attore religioso transnazionale è utilizzato anche, nel successivo capitolo, per definire il ruolo globale del Vaticano nel mondo del terzo millennio. Questo in particolare dopo l’avvento al soglio pontificio di Papa Francesco, con la sua articolata critica agli attuali processi di globalizzazione, visti come una “globalizzazione dell’indifferenza”, e la proposta di un’alternativa “globalizzazione della fraternità”.
Il quinto ed ultimo capitolo è infine dedicato al tema, molto attuale anch’esso, della libertà religiosa. Anche qui Ferrara non si fa remore nel mettere in discussione luoghi comuni come quello della reciprocità, secondo il quale si dovrebbero garantire libertà religiose solo a quelle comunità che, nelle patrie d’origine, garantiscono gli stessi diritti; o quello che intende la questione in senso esclusivo, per cui la difesa dei diritti vale solo per i propri correligionari. In questo senso, prendendo spunto dalla propria esperienza diplomatica, l’autore chiude il cerchio con un’analisi dei discorsi sulle libertà religiose portati avanti dalla Farnesina negli ultimi anni: dall’approccio mediorientale di Andreotti a quello post-11 settembre e orientato alla difesa delle minoranze cristiane di Frattini.
Pur nella sua brevità, questo testo stimola numerose riflessioni, a molti livelli.
In primo luogo, in relazione alla disciplina delle relazioni internazionali, l’analisi del ruolo della religione mette in evidenza tutti i limiti del tradizionale approccio realista, ancora egemone nella disciplina, nell’includere una serie di fattori che travalicano i confini e l’autorità degli stati. Forse la proposta di utilizzare concetti come l’agape cristiano o la filosofia buddhista come basi per una nuova concezione delle relazioni internazionali è utopistica e irrealizzabile. Nondimeno, essa segnala in modo molto efficace la necessità di un ripensamento di molte categorie concettuali attualmente in uso, non solo in ambito accademico.
Dal punto di vista “concreto” dei rapporti internazionali, invece, un messaggio molto importante proposto da quest’opera è quello del rifiuto di facili categorizzazioni e di visioni identitarie “alla Huntington”, pur senza dimenticare la realtà dei problemi sul tappeto. In realtà, è il pensiero dell’autore, la realtà contemporanea – e il mondo delle religioni in particolare – è qualcosa di estremamente complesso, sfumato e differenziato, che non può essere apprezzato adeguatamente con una visione del mondo improntata al manicheismo.
Infine, mi pare che questa raccolta di saggi, che costituisce una sorta di summa delle teorizzazioni su religione e relazioni internazionali effettuate nell’ultimo decennio, segnali la necessità di un ulteriore passaggio di livello. Fino ad oggi i lavori prodotti nell’ambito della letteratura internazionale si sono limitati a proporre spunti di riflessione, o ad elaborare modelli su aspetti specifici del ruolo della religione nelle relazioni internazionali. Forse è venuto il momento per questa branca della politologia di fare un passo ulteriore e di elaborare un modello più completo ed esaustivo, che esca dagli studi “di nicchia” e si guadagni un posto nel mainstream della disciplina delle relazioni internazionali.
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