di Giuseppe Romeo
[…] “…Geograficamente, ma anche sul piano politico e culturale, la Russia si trova fra Europa e Asia: il risultato è che essa non ha mai sentito di appartenere pienamente né all’una né all’altra…” […] N. N ASHENKAMPF., S. V. POGOREL’SKAJA Sovremennaja Geopolitika (2005)
Ci sono alcuni aspetti della storia degli Stati Uniti, sia interna che internazionale, che molto spesso sfuggono allorquando ci sentiamo parte di un modello, se non proprio di una cultura, che ci avvicina, che ci fa sentire protagonisti di un modo diverso di concepire i rapporti sociali, politici, economici e di potenza. E ci sono aspetti, che, forse per debito o forse per timore, rinviano alla necessità di guardare ad una leadership che possa, in qualche modo, farsi carico delle nostre debolezze, della nostra incapacità di esprimere un’identità vera, unica, credibile. In tutto questo, gli Stati Uniti hanno dimostrato di capire il momento nell’affermarsi come potenza guida nella comunità internazionale. Tuttavia, seppur “capito” non è detto che il momento sia stato gestito al meglio o con coerenza pari alla potenza espressa o esprimibile, impiegando con risultato le risorse finanziarie spese nelle diverse campagne militari soprattutto dopo la seconda guerra mondiale.
Tornare a essere “americano centrici” per incapacità di essere eurocentrici sembra la non “nuova” panacea alla confusione dimostrata sul piano strategico dall’Europa. D’altra parte, se un Presidente del Consiglio di una nazione partner afferma, ad esempio, che la Presidenza Obama è un modello, significa che noi non abbiamo un “nostro” modello, e questo è vero. Ma a ricercare modelli altrui si rischia di sposare punti di vista o prospettive che non sempre giustificano le nostre scelte soprattutto se ci si accoda a chi le scelte spesso le fa al di là dell’opinione dei partner. Ora, è evidente che la leadership Obama sia debole. È debole in politica interna, dal momento che le scommesse su un nuovo welfare a stelle e strisce non sono state vinte. È debole perché i conti degli Stati Uniti sono nelle mani di società di capitali che dispongono ancora di molta autonomia, crisi e scandali, e perché in fondo, gli Stati Uniti, soffrono del male di sempre: la consapevolezza di essere destinatari di una missione universale, promotori di una prospettiva unica di condotta delle relazioni economico-sociali e politiche che supera ogni diversità culturale. In fondo, per certi versi, la storia attribuisce agli Stati Uniti la capacità di aver espresso la migliore sintesi tra culture e stili di vita realizzando su questa una concezione di nazione che ha cambiato in un certo senso la “storia” stessa del mondo moderno. Però la stessa esperienza americana avrebbe dovuto insegnare che la storia non sempre segue modelli preconfezionati e non sempre permette dilazioni di spese. Una politica di potenza ha dei costi e, su questi costi, si misura la capacità di agire di chi vuole essere protagonista come gli Stati Uniti. Una capacità che, proprio in ragione della difesa della superiorità tecnologica – ad esempio, in chiave di potenziale di deterrenza – raggiunge sul campo il paradosso di inibirsi la possibilità di affermare una capacità militare e di coercizione delle volontà avversarie subendo la sconfitta politica se non proprio militare.
La guerra del Vietnam (o quella in Afghanistan per i sovietici), come altri ingaggi pre e post-Guerra Fredda sono esempi emblematici nella loro disarmante verità. La diversità non percepita da Obama e dal suo entourage e, ancor più macroscopicamente, dalla stessa Alleanza Atlantica, è che Mosca non ha mire di potenza, almeno non nell’accezione che noi occidentali attribuiamo a questo termine fermi come siamo, al di là delle varie multilateralità di circostanza, alle vecchie logiche bipolari. Mosca, in questi anni, ha rimodellato la sua capacità militare indirizzandola verso la propria regione e le prossimità russe o russificate in un chiaro disegno: mantenere una dignità di nazione che gli attribuisca il ruolo di attore irrinunciabile delle relazioni internazionali senza dover cadere nel rischioso sovradimensionamento degli sforzi dovuto ad una possibile forward strategy. Il modello di difesa russo muta, così, la sua prospettiva dottrinale. Mentre l’esistenza dell’Alleanza Atlantica sembra ancora una volta orientata a doversi cercare un avversario così come nelle migliori tradizioni americane, la Russia di Putin ha inaugurato e messo in campo un nuovo corso della dottrina militare che ricolloca al centro di ogni azione se stessa evitando, se possibile, impegni internazionali.
Così, se gli Stati Uniti con la guerra preventiva inaugurata in Iraq, ma già sperimentata in America Centrale – surrogata da formule e forme non ortodosse di intervento – si sono attribuiti una legittimazione a priori, allo stesso modo Mosca non ha perso tempo. Il Cremlino, non sovietico, ha ridisegnato la propria dottrina non escludendo – e legittimandolo – l’impiego preventivo della forza, se richiesto dagli interessi della Russia o dai suoi impegni nelle alleanze possibili. In fondo, l’esperienza discutibilmente legittima del Kosovo e poi dell’intervento statunitense in Iraq, non potevano, non avere delle conseguenze sulla percezione russa del proprio ruolo sul continente. Sfruttare le debolezze interne dell’impero russo da parte dell’Occidente si è rivelato non solo un boomerang, ma una scelta di superficialità politico-strategica giustificata dall’apparente fragilità di un (ex) avversario. L’intervento militare russo in Crimea è, quindi, l’ennesima risposta “politica” al tentativo di indebolire la Russia dal proprio “interno” e, nello stesso tempo, una risposta militare che vuol presentare nuove capacità di comando e di reazione delle forze che presentano un modello diverso di pianificazione, comando, controllo e condotta delle operazioni. Cioè, contrariamente ai luoghi comuni, non è solo la capacità nucleare quella a cui Mosca affida la dissuasione della minaccia, ma – simmetricamente alla concezione della “guerra preventiva” degli Stati Uniti – è nella possibilità di dotarsi di capacità nella rapidità di reazione, nell’abbattimento dei tempi, nella tempestività di spiegamento delle forze e del ricevimento degli ordini che fa affidamento, se l’interesse russo dovesse essere minacciato. In altri termini, un news management politico e strategico di uso della forza che ricalca molto la RMA (Revolution Military Affairs) degli Stati Uniti dell’era Bush-jr. Una concezione qualitativamente nuova, che supera la tradizione “burosaura” dell’Armata Rossa, che semplifica i rapporti tra livello politico e livello militare, che crea aderenza e continuità tra il livello strategico di pianificazione e organizzazione e quello tattico di condotta. Una dottrina non nuova, in verità almeno nei presupposti, ma adattata e riproposta secondo una prospettiva strategica rivolta a garantire la sopravvivenza fisica ed economica di una nuova Russia, mettendo in conto, se dovesse venir meno la funzione di de-escalation della difesa nucleare, anche il trasferimento delle ostilità in territorio nemico. Di fronte a ciò, considerati i russi dei buoni alunni degli americani in questi ultimi anni, diventa difficile per gli Stati Uniti porsi da garanti della legittimità dell’azione. La verità è che la NATO, per miopia politico-burocratica, ha perso l’occasione di realizzare dal 1989 in poi una comunità strategica che dall’Europa arrivasse sino a Vladivostok limitandosi solo ad investire sull’indebolimento progressivo del fronte interno russo.
Guardando al passato sembra quasi che l’Occidente euroatlantico faccia un passo indietro nella storia dichiarando di voler evitare una nuova Guerra Fredda, ma di fatto auspicandola dopo averne favorito i presupposti dei quali la situazione in Ucraina è solo uno degli epiloghi. Nel 1974 Alberto Ronchey – in “Ultime notizie dall’URSS”, Garzanti – osservava che […]“ciascuno dei due massini sistemi (Usa e Urss – nda) – quali modelli o alternative di civiltà, si alimenta della crisi dell’altro identificando la propria validità nei fallimenti e nei rischi dell’altro”[…]. Il risultato, oggi, è che mentre gli Stati Uniti e l’Europa cadono ancora nel loro errore, Mosca non è rimasta a guardare e un presidente come Putin, che conosce le dinamiche atlantiche, non è certo uomo da farsi sorprendere o da restare inattivo. E i fatti, nostro malgrado, gli hanno dato ragione almeno da qualche anno sino ad oggi.
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