di Alessandro Campi
Sono trascorsi settant’anni dall’uccisione di Giovanni Gentile. Ma non sono bastati a fare piena luce su quest’episodio, il più eclatante della guerra intestina che divise gli italiani dopo la caduta del regime mussoliniano. Come altri delitti politici eccellenti del Novecento italiano, da Giacomo Matteotti ad Aldo Moro, esso suscita ancora interrogativi.
Sul delitto Gentile esiste una vasta letteratura (vedi box). Nel corso degli anni – sempre alla ricerca di un indizio nuovo o prima sfuggito, di una pista inedita, di una verità da presentare come definitiva – si sono scandagliate tutte le possibili fonti. Si è attinto ad archivi pubblici e privati, a testimonianze orali e memorie scritte, ad articoli di giornale e diari, a verbali di polizia e schede informative dei servizi segreti, a perizie balistiche e referti medico-legali. Ma più gli studiosi si sono calati nei panni del detective, più il mistero è parso infittirsi.
In realtà quest’omicidio è di quelli che meno di altri dovrebbe prestarsi ad alimentare leggende. Nel secondo dopoguerra, quando le passioni ideologiche erano incandescenti e condizionavano la ricerca, ci si poteva ancora chiedere se esso fosse stato opera dei fascisti intransigenti, di partigiani comunisti o di esponenti dall’antifascismo azionista, con l’ausilio magari di qualche infiltrato dei servizi alleati. Oggi sappiamo con certezza – dopo molte inchieste e indagini – da chi era composto il gruppo di fuoco (cinque membri dei Gruppi di azione patriottica), chi fu a premere il grilletto quella fatale mattina (due di essi: Giuseppe Martini e Bruno Fanciullacci) e da chi fu impartito l’ordine (la direzione clandestina del partito comunista fiorentino).
Ma il volume appena uscito di Luciano Mecacci (La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile, Adelphi, Milano, 2014, pp. 520, euro 25) ha riaperto il dossier: quello di Gentile, per le sue implicazioni simboliche, evidentemente non è stato un attentato politico come gli altri della nostra storia recente. Sulla base di una imponente e spesso inedita massa documentaria, Mecacci ripropone tutti gli interrogativi che per decenni si sono andati accumulando intorno a questo caso, sino a trasformarlo in un inestricabile giallo storico-politico. Non solo e non tanto chi ha ucciso materialmente Gentile, ma in quale contesto politico e all’interno di quali ambienti è maturata la decisione di sopprimerlo, quali e quante forze (in combutta o separatamente) hanno concorso a quest’obiettivo, per quale complesso di ragioni (politiche e non solo) si è scelto proprio Gentile come vittima, chi sapeva e non ha parlato, né allora né dopo, chi pur sapendo la verità ha sempre preferito distorcerla o raccontarla in modo parziale, quali reazioni (a caldo e nei decenni a venire) quella morte ha determinato e, infine, quali sentimenti e quali sensi di colpa essa ha lasciato nella nostra memoria nazionale.
Dal racconto di Mecacci emerge un quadro del delitto assai complesso e per molti versi completo, nel quale si incrociano personalità d’ogni tipo, dal raffinato collezionista d’arte allo scherano repubblichino, dal partigiano idealista all’agente doppio, ma anche di difficile decifrazione. Il libro è efficace (e assai suggestivo) nella descrizione del clima cupo e disperato che accompagna ogni guerra civile, tra intrighi d’ogni natura e miserie umane, ma accumula troppe suggestioni, tiene aperte troppe piste contemporaneamente. C’è un numero eccessivo di attori sulla scena e vengono avanzate troppe possibili spiegazioni e cause per una vicenda che dal punto di vista storico ha sempre presentato, a leggerla bene, motivazioni assai lineari: Gentile fu ucciso perché era l’incarnazione culturalmente più alta del fascismo ma anche un bersaglio facile e comodo, perché predicava la pacificazione mentre era in corso una guerra civile e perché aveva aderito alla Rsi legittimandola agli occhi di molti italiani. Ragioni inoppugnabili, colpe imperdonabili, in quel drammatico contesto.
Le pagine più avvincenti del libro sono quelle che chiamano in causa le responsabilità e le debolezze del mondo intellettuale fiorentino e italiano, a ridosso dell’omicidio e per tutti i decenni successivi. Ai funerali di Gentile si presentarono in pochi, tra universitari e uomini di cultura, compresi coloro che gli dovevano molto e che per anni lo avevano blandito o assillato con le loro richieste d’aiuto. Probabilmente furono proprio degli intellettuali a indicarlo come obiettivo da eliminare. Per costoro – molti dei quali negli anni successivi, da fascisti o simpatizzanti del regime che erano stati, si misero sotto l’ombrello protettivo del Pci, chi al termine di un sofferto cammino intellettuale, ma molti per semplice convenienza o amor di carriera – l’assassinio del filosofo rappresentò un salvifico lasciapassare. Con Gentile in vita certe facili o troppo veloci conversioni ideologiche non sarebbero state possibili.
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