di Alessandro Campi
Nei momenti solenni che si ha la ventura di vivere, dinnanzi ai grandi appuntamenti nei quali ci si trova più o meno fortunosamente coinvolti, gli interrogativi e i pensieri che vengono alla mente quasi mai sono all’altezza di ciò che si ha dinnanzi. Più che profondi ci si scopre banali o forse soltanto semplici e normali, preda di suggestioni che sono inevitabilmente contraddittorie, di curiosità persino infantili, al limite dell’irriverenza, di impressioni che si accavallano senza alcun ordine.
La canonizzazione di due papi morti in presenza di due papi vivi è qualcosa di unico e di irripetibile. Un evento tale da giustificare l’attesa dei fedeli (e naturalmente le loro preghiere), l’enfasi finanche martellante dei commentatori di tutte le lingue, lo sforzo organizzativo grandioso del Vaticano e del suo dirimpettaio italico, la generosa e sincera mobilitazione di una moltitudine di credenti da ogni angolo del mondo. Ma tanta grandezza e imponenza porta inevitabilmente a chiedersi se la santità non rischi di svanire o di affievolirsi laddove la liturgia che dovrebbe proclamarla dinnanzi alla storia diventa, da cerimonia collettiva vissuta in presa diretta, spettacolo planetario e intrattenimento di massa. È questa, verrebbe da dire, la potenza universale della Chiesa, che non solo raccoglie un milione di devoti a Roma, ma due miliardi ne inchioda dinnanzi al televisore. Ma viene anche da chiedersi se la forma dell’evento, la sua colossale amplificazione mediatica, non finisca per mangiarsi il contenuto spirituale del medesimo. I media sono un’arma efficace contro la secolarizzazione, che la Chiesa ha scelto di utilizzare in modo razionale e intensivo per riprendersi la guida morale del mondo, o un vettore di facile popolarità, tanto più efficace quanto più il messaggio risulta semplice e sintetico, quanto più si tende ad impressionare ed emozionare?
Passeggiando per le strade, già la notte della veglia, capisci che i fedeli sono qui in maggioranza schiacciante per Woytila e, naturalmente, per Francesco, che sembra averne ereditato il carisma e l’incredibile capacità comunicativa. Papa Giovanni XXIII suscita minori entusiasmi: la sua figura è solo nella memoria degli italiani di una certa età e nell’interesse degli studiosi di Chiesa. Non si capisce nemmeno quanto la sua proclamazione a santo abbia sollecitato l’orgoglio nazionale, oltre quello campanilistico dei bergamaschi accorsi anch’essi in massa (fatta la debita proporzione) alla stregua dei polacchi. E a proposito di orgoglio e senso dell’appartenenza colpisce come i fedeli ci tengano a farsi riconoscere secondo la loro provenienza nazionale, esibita attraverso i costumi, le bandiere e gli emblemi dei rispettivi Paesi. Il senso dell’universalità evidentemente è tanto più autentico se si nutre del senso della particolarità e della differenza, ed è una lezione che dalla sfera religiosa sarebbe bene si trasferisse alla stregua di un monito in quella politica.
Il sacro è tale perché esiste il profano che lo nega e lo sublima. Lo spettacolo dei santini e degli oggetti devozionali venduti con insistenza ad ogni angolo è deprimente e a rigore blasfemo. Nei secoli questo commercio, che lascia sperare gli acquirenti in una qualche indulgenza divina, ha depresso molti dei viaggiatori nella città santa e ancora oggi non cessa di infastidire. Forse è il prezzo da pagare quando si muovono moltitudini a caccia di un feticcio che perpetui il ricordo di ciò che si è visto, dell’evento al quale si è partecipato. Forse è il lato in ombra della devozione popolare, sulla quale da sempre si è speculato: la speranza del cielo in cambio di pochi soldi.
A proposito di immaginette devozionali. Non c’è traccia, in questo trionfo di Papi santi o osannati che si trovano in vendita persino nei bar, di una figura come quella di Paolo VI: un gigante della Chiesa che evidentemente non rientra nei canoni della popolarità o simpatia odierna. Chi volesse portarne a casa il ritratto, per completare il proprio pantheon di pontefici contemporanei, non lo troverebbe a nessun prezzo. Manca un mercato forse a causa di una rimozione storico-dottrinaria che per il mondo cattolico rischia di diventare un problema serio dal punto di vista della memoria.
La fede è una forza potente, capace di muovere le montagne. T’impressiona quella che leggi, spesso velata da un sorriso, sul volto degli anziani, dei malati, dei giovani accorsi a Roma. Ma t’impressiona anche l’idea che spesso tale fede sia l’altra faccia del fanatismo, che egualmente è una forza che muove la storia e non sempre nella direzione giusta. Viene da invidiare le certezze del credente, quando riflettono un animo allegro e sereno. C’è da temerle quando sono il riflesso di una visione dell’uomo e del divino che tende, più che all’assolutezza, all’esclusività. Cristiano tra i cristiani, l’eccesso di devozione non suscita nell’osservatore grandi paure. Ma se ci si trovasse, da cristiano alieno, in mezzo a masse induiste o musulmane che pregano con analogo fervore, che danzano e inneggiano senza sosta?
La gestione dell’evento – in effetti grandioso – obbedisce ad una geometrica capacità di ordinare le cose e gli uomini: c’è chi comanda e c’è chi esegue, l’incastro organizzativo è perfetto, il caos e il caso non esistono. E viene da chiedersi come mai l’Italia del potere e della politica, avendo dinnanzi a sé un simile esempio di rigore e capacità, non ne abbia mai assimilato i princìpi ispiratori, le tecniche e le regole di condotta. Dal Vaticano abbiamo importato la passione per gli intrighi di palazzo, un certo stile sfuggente e riservato al limite della segretezza, ma avremmo potuto anche fare nostri la sua capacità ordinatrice e il suo senso rigorosamente gerarchico dei rapporti. Duole pensare che passata la festa Roma, nel senso della capitale di uno Stato secolare ormai votato alla decadenza, tornerà preda dell’indolenza e dell’anarchia.
Questo e altro ti si affolla nella mente, sotto forma di dubbi e domande, specie se la disposizione che ti guida è quella dell’agnostico o del semplice credente per affiliazione famigliare. E dunque ancora di più ti turba e sconcerta lo squarcio di sole che si produce nel cielo plumbeo nel momento esatto in cui Francesco proclama solennemente la santità dei suoi due predecessori. Scorgi lo sguardo meravigliato ed estatico di chi ti sta intorno, punti gli occhi verso l’alto, e nell’incertezza dici anche tu una preghiera a bassa voce.
* Editoriale apparso sul quotidiano “Il Messaggero” del 28 aprile 2014.
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