di Carmelo Palma

imagesLe proposte di Renzi sui temi istituzionali sfidano evidentemente la vulgata conservatrice, che confonde la stabilità della democrazia italiana con l’intangibilità del sistema istituzionale concepito dalla Costituente e guarda quindi con sospetto ogni manomissione dei dispositivi congegnati per prevenire una ricaduta autoritaria, come se il vero “rischio democratico”, oggi in Italia, fosse legato a esecutivi troppo forti e non a istituzioni troppo deboli e dunque a un eccesso, e non a un difetto di potere e di legittimazione dei governi.

Non è un caso che i massimi rappresentanti del conservatorismo costituzionale all’italiana – a partire da Rodotà – giudichino alla fine meno distante l’utopia post-democratica grillina delle soluzioni normalmente adottate nei paesi avanzati per rendere efficiente il processo democratico e prevenire un cortocircuito dagli esiti fatali tra governo e rappresentanza. Per i difensori della “Costituzione più bella del mondo” Parigi, Londra e Berlino, per non dire di Washington, sono più lontane e sinistre dell’esoterica Gaia di Casaleggio.

Lo scontro con i “parrucconi” di Renzi e della ministra Boschi segna quindi una svolta radicale sul piano della politica costituzionale e una rottura culturale profonda in una sinistra che solo pochissimi anni fa si era intruppata – senza significative eccezioni, neppure tra gli antichi e recenti rappresentanti della nouvelle vague renziana – nella crociata referendaria contro la riforma costituzionale del 2005, sotto la guida politica e morale di Oscar Luigi Scalfaro. Renzi non si sente più sotto tutela, questo è chiaro.

Ma è chiaro l’indirizzo che intende imprimere a una discussione rallentata dalla resistenza passiva di molti, all’interno e all’esterno del PD? È chiaro il nuovo assetto istituzionale che avrebbe in mente e che è costretto a negoziare con un Parlamento per diverse ragioni (non tutte peregrine) riluttante? Soprattutto, è chiaro il fine che Renzi si prefigge con questa accelerazione sul calendario delle riforme?

La profondità e l’importanza dello scontro in corso in Parlamento – e soprattutto all’interno del PD – trova ben poche corrispondenze nella superficialità esplicitamente propagandistica dei “paletti” che Renzi ha imposto alla discussione e nella debolezza delle soluzioni che prospetta rispetto al rischio default della democrazia italiana. La non elettività del Senato, la gratuità del mandato dei senatori, l’assenza di un rapporto di fiducia tra questi e l’esecutivo e la potestà esclusiva della Camera sulle leggi di bilancio sono, per un verso, criteri troppo ampi e vaghi per circoscrivere un modello e per altro verso – si pensi alla gratuità della carica – principi sensibili dal punto di vista politico, ma del tutto irrilevanti dal punto di vista costituzionale.

Il disegno di legge che il governo ha presentato alle camere sembra concepito per funzionare più nella discussione pubblica che nella dialettica istituzionale e le reazioni alle critiche e alle riserve, non necessariamente conservatrici, sono in generale liquidate dall’esecutivo facendo appello alla richiesta di cambiamento che sale dal Paese e alla necessità di corrisponderne l’urgenza. La riforma, come l’intendenza, seguirà. È evidente che per Renzi è molto più importante conservare un contatto e un rapporto di consenso con un’opinione pubblica incline a richieste sommarie e contraddittorie, ma ultimative, che attardarsi su complicate (e noiosissime) valutazioni d’impatto delle possibili riforme.

Questo ha consentito al Presidente del Consiglio di riconquistare il centro del ring, uscendo dalle corde a cui il voto di maggio aveva messo l’intero sistema dei partiti. Ma chiaramente non gli permette di considerare la riforma alla stregua di un obiettivo su cui costruire un consenso, costringendolo invece a usarla come un mezzo per consolidare e non dissipare il consenso conquistato. L’abolizione del Senato (e dello stipendio dei senatori!) in fondo, prima che una riforma, è un capitolo dello storytelling renziano e un manifesto della sua novità.

Come risponde, infatti, il governo a chi gli faccia, ad esempio, notare (da sponde opposte a quelle dei “parrucconi”) che la riforma presentata elude completamente il problema della forma di governo, priva il nuovo Senato, a differenza del Bundesrat, di qualunque competenza propria e “monocameralizza” in capo alla camera nazionale anche le materie che logicamente, secondo il modello prescelto, dovrebbero andare alla camera territoriale? Risponde accomunando i riformisti recalcitranti ai “professoroni” conservatori e mostrando chiaramente di preferire l’indeterminatezza degli esiti, a quella dei tempi della riforma.

Il Renzi vincente sta in fondo seguendo le orme e mostrando i difetti del centro-sinistra perdente del 2001, che licenziò a tempo di record una riforma del Titolo V, che serviva più per gettare un osso federalista alla rabbia nordista, che per aggiustare costituzionalmente il rapporto tra centro e periferia, disarticolato politicamente dall’affermarsi della questione settentrionale e sbilanciato istituzionalmente dall’emergere di un’autonoma sovranità regionale. Anche a quel tempo occorreva “fare in fretta” e “mandare un segnale” a un’opinione pubblica impaziente e ne uscì una riforma pasticciata e inefficiente, anche se consonante con lo spirito del tempo.

Renzi, inoltre, suggerisce l’idea che la semplificazione istituzionale sia una materia facile, complicata solo dalle resistenze del ceto politico e che la complessità degli intrecci che una riforma di questa ambizione è chiamata a sbrogliare sia una mera apparenza, una sorta di illusione ottica, da cui è possibile liberarsi affidandosi fiduciosamente a una vox populi affrancata dai condizionamenti e dagli inganni della “politica”. Anche in questo, inseguendo Grillo sul suo stesso terreno, finisce per non dire cose molto diverse dal suo antagonista antipolitico.

È una ragione per mettersi di traverso al processo avviato, con fare molto sbrigativo, dal Capo del Governo e per allearsi, oggettivamente, con i conservatori dello status quo? Niente affatto, ma è una ragione per seguire gli eventi e le mosse degli uni e degli altri con una ragionevole prudenza, senza innamorarsi di una riforma-manifesto per disamore dei parrucconi.

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