di Danilo Breschi
Come ebbe a scrivere José Ortega Y Gasset, in una mirabile pagina del suo libro più noto, il liberalismo «è il principio di diritto secondo il quale il potere pubblico, sebbene sia onnipotente, deve limitarsi e fare in modo, sia pur a proprie spese, che nello Stato da lui diretto possano vivere anche coloro che non pensano né sentono come i più forti, come la maggioranza». Un principio etico così «antinaturale» (per dirla ancora con Ortega) che si comprende quanto difficile sia da assumere e tradurre in condotta politica, soprattutto se a contatto diretto e quotidiano con il potere più vasto, qual è quello assorbito e incarnato dallo Stato moderno.
Poco importa che storicamente non sia stato esattamente così nelle poleis greche o nella res publica romana, poco importa che l’aristocrazia non sempre abbia saputo impersonare un virtuoso mescolarsi di superiorità e generosità, di forza e altruismo. Quel che conta è che da un’epoca e dal suo pensiero più elevato si possano ancora ricavare modelli di comportamento e ideali regolativi della ragion politica contemporanea. Alcune considerazioni di De Sanctis meritano di essere riportate nella loro interezza: “Forse proprio il rispetto assoluto che si deve alla democrazia moderna per quanto, non ostante le promesse non mantenute, è riuscita a realizzare contro tutti i suoi nemici e contro tutti i suoli mali genetici o acquisiti, impone, nella crisi che attualmente attraversa, una riconsiderazione umile e perciò radicale del principio che la governa: l’eguaglianza […]”.
Non si contesta il valore dell’eguaglianza ma la sua efficacia come principio che aiuti a scegliere la decisione più fruttuosa per la comunità. Se ne mette altresì in discussione la pertinenza all’interno del meccanismo di attivazione di una qualsiasi decisione politica, che riguardi cioè il destino comune. L’eguaglianza mantiene, e anzi deve recuperare, quel che ne costituisce l’essenza ai fini di una “ottima repubblica”: l’essere cioè valore e sentimento, e quindi potenza che smuove la società favorendone l’amalgama, spingendo tutti e ciascuno dal basso verso l’alto, rimettendo costantemente in gioco la partecipazione alla vita comune, ribadendo che la politica è vita in comune.
Ed è a questo punto del ragionamento che De Sanctis ritiene di dover introdurre l’unico correttivo legittimo della teoria democratica contemporanea, un correttivo che sia ad essa «interno», giammai alternativo. Occorre infatti rimettere in discussione la convinzione secondo cui la partecipazione di tutti automaticamente si traduce nel riconoscimento a priori, senza necessità di prove, della “capacità” di tutti a governare la vita comune. Se il problema del governo politico consistesse soltanto, come oggi si crede e si vuol far credere, nell’interpretare le esigenze e gli interessi “reali” della comunità, allora la valutazione di cosa sia “interesse” per gli uomini e le donne potrebbe anche essere reputata facoltà largamente diffusa se non di tutti. Ma la questione è un’altra: siamo tutti soggetti in grado di assumersi la responsabilità politica, ovvero di governo?
La domanda trova fondamento nel fatto che tale tipo di responsabilità richiede di essere capaci di occupare una posizione all’interno di una gerarchia che è tale perché definisce per ciascun ruolo una serie di funzioni, le quali devono essere espletate pena deperimento dell’intero che è composizione armonica – cioè articolata in modo da essere operativa e funzionante al meglio – di tutti quei suddetti ruoli. Gerarchia è qui sinonimo di “classi dirigenti”, vertice della struttura che articola la convivenza umana (in città, regioni, nazioni, ecc.). Senza la partecipazione anche di una sola di queste parti funzionali, la gerarchia si tramuta in oligarchia, diventa cioè un corpo separato e autoreferenziale rispetto al resto della società. E se in condizioni di liberal-democrazia “aristocratica” tutti i cittadini, anche se non-governanti, godono di diritti civili di libertà, e in questo sta l’eguaglianza garantita, in un regime oligarchico anche la fruizione delle libertà rischia invece di contrarsi sensibilmente.
L’armonia di cui qui si parla non ha niente di pericoloso, non evoca inquadramenti totalitari, ma rimanda anche stavolta al significato greco di isonomia delle “parti”. Armonia è salute del corpo, come insegnava Alcmeone, è segno che si è riusciti ad addomesticare il conflitto del due, del molteplice, a mettere in connessione tutte le “parti” dell’anima (concupiscibile, irascibile, razionale, secondo Platone). Tale armonia costituisce il “buon carattere” di cui parlava Eraclito: «essa è a un tempo frutto di en-ergeia (la prestazione interiore isonomica: in grado cioè di dare a ciascuno ciò che gli spetta) e eu-praxia (l’agire orientato alla realizzazione in comune del bene)». E ovviamente, com’è noto, per Platone e gran parte del pensiero greco antico, se ben riuscito è l’uomo, ben riuscita sarà la città, e viceversa. Per gli antichi greci “vivere bene” è ben altro e ben di più di un semplice soddisfacimento delle proprie pulsioni e di una prolungata rimozione di fatica e sofferenza.
Non a caso si preferisce oggi discorrere di “benessere”. “Vivere bene” comporta per ogni essere umano – che è bios, ossia vita caratterizzata – corrispondere in modo il più possibile adeguato al proprio specifico paradeigma che ogni bios incorpora. “Vivere bene” significa «prendere e darsi forma nella fedeltà al proprio paradeigma», e quindi è ideale che non ha niente a che vedere con l’utile dei moderni e semmai prescrive l’inserimento del singolo nella comunità più vasta dei concittadini.
Le sfide concettuali e pratico-politiche che la proposta di De Sanctis getta con forza sul tavolo del dibattito pubblico, e non solo filosofico, meriterebbero ulteriori approfondimenti che non possono essere espletati in questa sede. Un’ultima considerazione va però almeno accennata. Le brillanti e dense pagine dei due brevi saggi qui commentati rafforzano la convinzione che alla base di ogni ripensamento ed eventuale possibile rifondazione della vita politica contemporanea stanno un ripensamento ed eventuale possibile rifondazione della vita stessa, o meglio dell’idea di “vita”, di “uomo”, di “carattere”, di “felicità”. La politologia chiede soccorso all’antropologia, così come il timoniere della nave chiede uno sforzo nuovo e ulteriore ai suoi rematori.
De Sanctis ci ricorda che per Platone la vita individuale ben realizzata, l’eudaimonia, «si configura come un dovere; anzi il dovere per eccellenza». La felicità è il termine con cui si è soliti tradurre eudaimonia ma che suona equivoco alle orecchie dei contemporanei, nel senso che fraintende il messaggio platonico avvicinandolo piuttosto a quello aristotelico. L’individuo felice o, per esprimersi meglio in termini platonici e greco-antichi, ben nato e che ben conduce la propria vita è colui che investe nella «solerzia quotidiana della buona prassi», colui che modella se stesso in vista di un modello ideale di “buona vita” (eu zen). Ma cos’è mai questo “bene”?
È semplicemente (si fa per dire!) il senso della misura e dell’equilibrio che si può avvertire là dove si percepisca la propria vita come un compito, che sarà tanto più lieve e persino piacevole quanto più solerte sarà l’impegno profuso. Solerte, ma anche fedele ad un paradigma che potrà scorgere soltanto colui che prenderà atto di come il singolo individuo e la comunità non possono procedere separatamente, ignorandosi o, peggio, combattendosi. In questo senso il “bene” dei Greci possiede un connotato specificamente antimoderno, dal momento che la vita è altro da mera materia organica solo e soltanto se inserito in una gerarchia di bioi, di altre vite a loro volta caratterizzate, una gerarchia che è struttura di vertice di una comunità, ovvero la polis, associazione organizzata di vite umane. La prestazione richiesta da una vita buona e giusta è pertanto duplice: verso l’interno della propria anima e verso l’esterno di quelle relazioni con gli altri senza cui non può nascere una buona prassi.
Ancora una volta De Sanctis prende le mosse da quell’universo filosofico ed etico antico che non è mai stato assimilato dalla modernità. Scopo di questa sua ardita operazione intellettuale è intravedere dalla contrapposizione tra antico e moderno le lacune e gli impoverimenti patiti dalla nostra attuale filosofia morale e politico-giuridica. Ecco perché il ritornare a Platone, nei termini indicati da De Sanctis, può comportare un ritorno al futuro, e riaccendere la speranza che il domani non sia per forza peggiore dell’oggi, secondo quanto ci induce a pensare un ormai diffuso scetticismo che rischia di paralizzare la nostra attività civica e di asfissiare così le democrazie occidentali. Facciamo in modo tale che un pensiero rigenerato restituisca un respiro regolare e profondo alle nostre vite politiche.
(2/2. Fine)
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