di Alessandro Campi

imagesCA8BJL07Ma siamo propri sicuri che il calcio rappresenti lo specchio fedele della società, la potente ed espressiva metafora che ne svela, meglio di quanto non farebbe qualunque indagine scientifica, i movimenti profondi e le dinamiche conflittuali, le passioni collettive e le energie in essa presenti? Ancora ieri, dopo l’eliminazione della nostra nazionale dai mondiali brasiliani, c’è stato un diluvio di commenti e analisi giocati proprio su questa corrispondenza o simmetria tra il mondo del pallone e la sfera politico-sociale: ciò che accade nel primo, una grave sconfitta come il trionfo in un torneo, sarebbe indicativo di ciò che si produce nella seconda.

Una nazione sfilacciata e confusa, economicamente in crisi e socialmente in fibrillazione, non può che produrre – si sostiene – una nazionale che a sua volta arranca dinnanzi agli avversari, senza idee e senza gioco (ma allora perché noi siamo usciti dal torneo, peraltro insieme all’Inghilterra, e la Grecia, nazione disastrata è fallita, ha passato il turno?). Al contrario, un universo calcistico vincente esprime, si ritiene in modo perfettamente meccanico, una società pervasa dall’entusiasmo di vivere, economicamente dinamica, che guarda al futuro con speranza (pensate sia questo l’Argentina, calcisticamente solida ma nuovamente sull’orlo del default?). Con tutto il rispetto, ma sembra sociologia da bar sport. Il calcio come chiave di lettura del mondo reale, le passioni sportive utilizzate come metro per valutare gli umori radicati nel corpo sociale, funzionano solo se ci accontentiamo di spiegazioni tanto suggestive, specie se presentate da qualche penna giornalisticamente sublime, quanto semplicistiche e persino distorcenti. Come quando si usano le tifoserie ultras come materiale antropologico per spiegare la violenza sociale o quella politica: ci sono corrispondenze simboliche, persino sovrapposizioni di persone, ma un capo tifoseria nelle vesti di combattente è sempre un’altra cosa da chi ha scelto la lotta armata o l’assalto contro lo Stato.

Il problema è che siamo vittime di una suggestione intellettuale che andrebbe al più presto superata. Abbiamo infatti fatto diventare strumenti d’analisi e di comprensione le metafore calcistico-agonistiche che abbiamo introdotto nel nostro linguaggio pubblico nel corso degli anni, sino a confondere i due piani, sino a pensare che politica e calcio siano in fondo la stessa cosa. La politica può anche permettersi, col fine di rendersi più comprensibile e accattivante, l’uso di un gergo in senso lato sportivo, il ricorso a immagini e persino simbolismi mutuati dagli stadi, a parole d’ordine del tipo “scendere in campo”, “fare squadra” o “fare pressing sugli avversari”. Ma la sua essenza rimane incommensurabile rispetto a qualunque partita di calcio: governare uomini e decidere del loro destino non è la stessa cosa che allenare undici professionisti pagati per fare goal. La politica, anche se oggi ci appare un’attività mercenaria o di cui vergognarsi, ha un fondo tragico e dilemmatico che per definizione manca a qualunque sport, pallone incluso. Se sbagli un rigore perdi una partita in attesa di vincere la prossima, se sbagli una decisione politica crei un danno collettivo che può persino essere irreversibile. La passione calcistica è stata sublimata dalla letteratura e connotata in senso epico, ma sempre un gioco (divertente) rimane: la vita di una comunità organizzata è un’altra cosa, ben più complessa.

Si dimentica talvolta – e anche questo dovrebbe far riflettere – che il nesso tra potenza politica e successo sportivo, tra benessere sociale e trionfi ludici, è tipico in realtà dei regimi totalitari, nei quali ciò che si perde in libertà e autonomia viene malamente compensato con l’ebbrezza collettiva da vittoria. Nelle dittature ci si affida allo sport per trasmettere al mondo un’idea di sé benevola, per fare dimenticare l’oppressione e per distrarre il popolo. Ma la qualità di una democrazia non può essere misurata dalla capacità della sua squadra di calcio a farsi largo nei tornei internazionali. Certo, lo sport – a partire proprio dal calcio – è un sistema organizzativo articolato: in un Paese sgangherato anche la macchina sportiva lo sarà. Ma il senso civico di una collettività non dipende dalle modalità del suo tifo o dal senso di attaccamento ai colori della squadra. Il calcio, per carità, è una cosa seria, ma forse ne abbiamo esagerato l’importanza.

L’Italia calcistica insomma non è uscita dal mondiale perché siamo un Paese con i conti pubblici al collasso, senza un forte senso dell’identità nazionale e socialmente lacerato al suo interno. Ma perché i convocati in Brasile dal commissario tecnico hanno giocato male e dimostrato di non avere una preparazione atletica all’altezza della sfida. Metteteci gli arbitraggi farlocchi, l’umidità e un pizzico di sfiga ed ecco spiegato il fallimento della spedizione, senza bisogno di scomodare i vizi atavici del nostro carattere nazionale. Viceversa, se fossimo andati sino in fondo questo non ci avrebbe certo aiutato nel fare le riforme o nel rilanciare l’economia. Quando Renzi parla di rottamazione che c’entra il fatto che anche nel calcio servirebbe un ricambio generazionale, se è vero – come abbiamo visto tutti – che i seniores hanno giocato meglio e con più impegno dei ragazzotti dell’ultima leva? E a proposito di questi ultimi, quanto tempo abbiamo perso a parlare di Balotelli come di un simbolo di integrazione sociale, come del testimonial di un’Italia incamminatasi sulla strada del multiculturalismo, mentre probabilmente è solo un buon attaccante (ma non un fenomeno mondiale) con un pessimo carattere, e solo per queste sue caratteristiche avremmo dovuto giudicarlo.

La controprova del mancato parallelismo tra calcio e società è che passata la delusione per l’eliminazione degli azzurri (e basteranno, vedrete, 48 ore) ogni singolo italiano per fortuna penserà ad altro e se ne farà una ragione. Se miglioreranno i nostri conti pubblici, se cambierà la nostra burocrazia, se diventeremo come popolo più civile e meno incline alla furbizia, se in Europa ci guarderanno con meno sufficienza che nel passato – tutto ciò dipenderà dalla nostra capacità ad essere cittadini virtuosi, dalla qualità della nostra classe dirigente, dal buono che riusciremo a realizzare nella sfera economica, dal modo come sapremo far funzionare le istituzioni. Il nostro mondiale dell’immediato futuro si chiama Expo. Che te ne fai di una vittoria al pallone, a parte l’ebbrezza del momento e i caroselli per le strade, se la corruzione dilaga, se i tuoi giovani sono senza lavoro o se non riesci a realizzare nessun grande progetto? Visto che in Brasile è andata male, vogliamo pensare finalmente alle cose serie?

* Articolo apparso sui quotidiani “Il Messaggero” e “il Mattino” del 26 giugno 2014.

 

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