di Alessandro Campi
L’ammissione di Diego Marmo, trent’anni dopo, secondo la quale Enzo Tortora (nella foto, il momento dell’arresto) non era “un cinico mercante di morte”, un affiliato alla camorra per il quale si chiedeva una condanna esemplare, può essere considerata, giocando un po’ con le parole, una forma di responsabilità civile. Un procuratore che si pente pubblicamente per ciò che ha fatto, arrivando a chiedere scusa ai famigliari dell’imputato che lui avrebbe voluto in galera, che parla di un rimorso interiore covato per anni, che riconosce di non essere stato a suo tempo sereno nel giudizio come un magistrato dovrebbe invece essere quando si decide della vita del prossimo, tutto ciò configura appunto una forma di risarcimento nel segno della civiltà. Un risarcimento non pecuniario o venale, ma morale, che naturalmente non può che rafforzare negli italiani la memoria di Tortora perseguitato innocente.
Ma ci sono voluti appunto trent’anni, una crisi di coscienza e un giornalista incalzante (di una testata che si chiama non casualmente “il Garantista”) per arrivare ad un’ammissione di colpa che, per come è stata formulata dal diretto interessato, rappresenta essa sola un formidabile argomento a favore di chi chiede che anche i magistrati siano chiamati a rispondere direttamente delle loro cattive azioni. Non quando vanno in pensione e a mezzo stampa: ma nel corso della carriera e mettendo mano al portafoglio.
Le parole di Marmo spiegano bene, infatti, che non ci sbaglia sempre e soltanto per ragioni tecniche o a causa di inghippi procedurali, come avviene del resto in ogni altra professione (ma anche in questo caso se ne risponde civilmente). Nel lavoro del magistrato – e da questo punto di vista il caso Tortora è da manuale – possono anche esserci il dolo, la colpa grave, la premeditazione, il pregiudizio, la mancanza di serenità, l’accecamento ideologico, la perdita di controllo rispetto ai significato e ai limiti del proprio ruolo. Perché di tutto ciò non si dovrebbe rispondere in solido e direttamente, senza che lo Stato faccia da assicuratore?
Difficile che un ingegnere si lasci fuorviare dall’appartenenza politica del suo committente, arrivando a sbagliare di proposito i calcoli del suo progetto. Molto più facile, come dimostrano le cronache italiane degli ultimi decenni, che un magistrato, specie in una situazione di crisi o disorientamento collettivo, si faccia influenzare dai suoi convincimenti personali, sino a trasformare il suo credo politico soggettivo in una visione oggettiva del bene pubblico.
Difficile che un avvocato, avendo spesso a che fare con malfattori o persone letteralmente fuori legge, indossi per sé i panni del redentore o del giusto. Ci si accontenta, invece di fare al morale all’umanità, di una buona parcella. Più frequente, lo abbiamo sperimentato in diverse occasioni, che un magistrato finisca invece per sentirsi investito (magari in perfetta buona fede) da un senso salvifico della propria missione, quasi toccasse a lui, solo a lui, ripulire la società dalla feccia e riportare la giustizia nel mondo. Ma agendo così si chiede troppo a se stessi e si creano ingiustizie ancora più grandi.
Difficile che un chirurgo sbagli l’intervento solo perché il suo paziente è famoso e fuori dall’ospedale ci sono i giornalisti che attendono notizie sullo stato di salute del malato da rotocalco. Molto più facile – come riconosce Marmo e come, ancora una volta, ci confermano le recenti cronache italiche – che la pressione mediatica intorno a un processo, che l’avere tra le mani un imputato cosiddetto eccellente, magari un politico, magari un uomo di spettacolo assai popolare come era Tortora, faccia perdere la trebisonda a chi è chiamato a giudicarlo secondo il metro della legge. Insomma, se non ti accecano il delirio di onnipotenza, il risentimento di classe o lo spirito di appartenenza ad una fazione politica, ti ottundono il sentimento umanissimo dell’ambizione, il bisogno di riconoscimento sociale o il desiderio di pubblica fama, laddove quella del magistrato dovrebbe essere – quasi per definizione – la più discreta, anonima e riservata delle professioni. Si offende qualcuno se ricordiamo quanti magistrati hanno utilizzato la loro posizione come rampa di lancio per altre carriere (a partire da quella politica) o come vetrina per una popolarità che altrimenti non avrebbero mai avuto? O se diciamo che ci vogliono carattere e professionalità per non frasi irretire dal circo mediatico e per non cedere alla tentazione della vanità?
Tornato all’ordine del giorno, il tema della responsabilità civile dei giudici – sul quale continua a pesare lo scandalo di un referendum popolare che ne chiedeva la disciplina per legge ma che nessuno ha trovato la forza politica di rispettare, alla faccia della democrazia dal basso e dalle partecipazione – pare che verrà affrontato dal governo nella sua annunciata riforma della giustizia, contro la quale però il sindacato dei magistrati ha già alzato un muro chiamando in causa come sempre la propria indipendenza. Senza rendersi conto che quest’ultima include la responsabilità personale e presuppone la fiducia dei cittadini: non mettere in discussione la prima spiega perché anche la seconda stia scemando.
Marmo, a conclusione del suo ragionare tormentato e tardivo, ha chiesto scusa alla famiglia Tortora. Se avesse chiesto scusa anche agli italiani e invitato a fare altrettanto i colleghi che come lui si sono all’epoca platealmente sbagliati, prendendosela con un galantuomo manifesto, la sua intervista sarebbe stata perfetta.
* Editoriale apparso sui quotidiani “Il Messaggero” e “Il Mattino” del 28 giugno 2014.
Lascia un commento