di Spartaco Pupo
“Giorgio Almirante è stato espressione di una generazione di leader di partito che, pur da posizioni ideologiche profondamente diverse, hanno saputo confrontarsi mantenendo reciproco rispetto, a dimostrazione di un superiore senso dello Stato che ancora oggi rappresenta un esempio”. Queste parole di Giorgio Napolitano, scritte nel giorno del centenario, mandano in soffitta i ritratti di chi vorrebbe continuare a ricordare Almirante solo per le apparizioni televisive, i comizi, l’oratoria e, soprattutto, quell’etichetta trascinata al collo fino alla fine, sotto i baffi grigi e gli occhi azzurri delle sue ultime foto a colori, traccia di un passato agitato come pericolo da esorcizzare da quanti facevano dell’appartenenza all’«arco costituzionale» un’espressione creata al solo scopo di discriminare il Msi. Eppure, grazie proprio ad Almirante, quel partito ha spesso dato prova di grande lealtà alle istituzioni democratiche.
La destra, o ciò che di essa rimane, consegna oggi ai giovani la sua effigie avvolta da un’aura sentimentalistica, mitologica, frutto quasi di una devozione, non certo di una storicizzazione, che a ben guardare è un’attitudine ancora invisa ai post-missini, a differenza dei post-comunisti, i quali già da tempo hanno iniziato a storicizzare, e con successo, la figura di Berlinguer. Del resto, è solo con l’occhio distaccato dello storico che è possibile tracciare un profilo obiettivo di uno dei più importanti uomini politici del secondo ‘900, dotato di un carisma non comune che gli attirò folle immense che non si radunavano solo per il gusto della sua “ars oratoria” ma anche per soddisfare il bisogno di un messaggio schietto, chiaro, ripulito dalle astuzie dialettiche e dai sottintesi ipocriti del “politichese”.
Nel ricordare Almirante non si può non riconoscerne i meriti, accanto all’ambiguità che pure ha contraddistinto il suo lungo impegno politico e che era fatta di evocazioni nostalgiche miste a spinte al cambiamento, di voglia di partecipazione nel bel mezzo della lotta al sistema. Nel difficile momento storico del post-Sessantotto, Almirante ha fatto di tutto per contenere gli impulsi violenti della destra eversiva. In una famosa intervista a registratore spento a “Il Lavoro”, dopo aver negato qualsiasi legame con chiunque avesse messo la bomba a Bologna, ebbe a dire: “Io non voglio morire da fascista. Tanto che sto lavorando per individuare e far crescere chi dovrà prendere le redini del Msi dopo di me. Giovane, nato dopo la fine della guerra. Non fascista. Non nostalgico. Che creda, come ormai credo anch’io, in queste istituzioni, in questa Costituzione. Perché solo così il Msi può avere un futuro”. Aspettative, queste, per molti versi disattese, e non sempre per responsabilità legate alle sue scelte. Ma la sua fermezza rimane incontestabile. Arrivò a chiedere per ben due volte la condanna a morte per quanti a destra si fossero macchiati di omicidi, perché, diceva, commettevano un crimine non solo come uomini ma anche come membri di un partito d’ordine; diede vita alla “Costituente di destra per la libertà” e aggiunse alla sigla del Msi la dicitura “Destra Nazionale”, primo esperimento di quello che sarà l’Alleanza nazionale inaugurata dall’erede designato Gianfranco Fini.
Insieme ai memorabili contributi al dibattito parlamentare sui problemi etici, sociali e internazionali dell’Italia, Almirante lascia un patrimonio di ideali che rimangono bene impressi nell’identità della destra: il senso del sacrificio per il Paese, la solidarietà tra gli Italiani, la pacificazione dopo la tragedia della guerra per il bene di una Patria comune, la dignità e il coraggio per le prove della vita, la ricerca della giustizia come elemento di coesione tra le categorie sociali. Un’impresa, forse, non è riuscito a portare a termine: liberare la destra dalla “paura della politica”, ossia dal timore di aprirsi alla collaborazione con le altre forze politiche. Negli anni ’80, inconfondibili segnali di apertura arrivarono da Bettino Craxi, il quale prospettò al Msi un possibile terreno comune nella lotta al duopolio Dc-Pci per la riforma delle istituzioni in senso presidenziale. Ebbene, Almirante preferì trincerarsi dietro l’orgoglio della “differenza” del suo partito. Il che, se da un lato gli costò l’isolamento, dall’altro si rivelò l’arma vincente di una forza politica che uscì indenne dal crollo della Prima Repubblica e dalla corruzione totale di quell’arco costituzionale tanto decantato.
Cosa rimane oggi di Almirante? La sua integrità morale, innanzitutto. Indro Montanelli scrisse, a ragione, che “era stato un politico cui si poteva dare la mano senza sporcarsela”. Ma restano anche i suoi insegnamenti, impressi nelle pagine ingiallite di libri a circolazione semiclandestina, come quello più famoso: “Vivi come se tu dovessi morire subito. Pensa come se tu non dovessi morire mai”. E infine le dolci parole del suo testamento, che gli fanno guadagnare la memoria eterna nella destra italiana, a prescindere dal destino infelice che l’ha segnata e che lui stesso non poteva prevedere: “Vorrei tanto che, quando non ci sarò più, si dicesse di me quello che Dante disse di Virgilio: facesti come Colui che cammina di notte e porta un lume dietro a sé e con quel lume non aiuta se stesso. Egli cammina al buio, si apre la strada nel buio, ma dietro di sé illumina gli altri”.
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