di Alessandro Campi
Chi pensa che l’Unione europea sia un progetto razionale, ovvero il frutto di una pianificazione politica nata in chissà quali segrete stanze e partorita da chissà quali menti illuminate, dovrebbe leggersi con attenzione (e col giusto divertimento) l’intervista che ieri Guy Abeille, ex alto funzionario del ministero delle Finanze francesi, ha rilasciato al quotidiano “la Repubblica”.
Abeille è conosciuto ancora oggi come “monsieur 3%”. Nel 1981 fu lui, per mettere ordine ai conti pubblici della Francia all’esordio della presidenza Mitterand, che inventò la regola del 3% di deficit pubblico sul prodotto interno lordo; limite che una decina d’anni dopo fu poi inserito nel Trattato di Maastricht e formalmente adottato nel 1997 da tutti i Paesi europei grazie al Patto di Stabilità e Crescita.
Il problema è che quella cifra – che richiama simbolismi antichi, essendo il tre un numero evocativo e quasi magico, d’una perfezione assoluta – non fu scelta sulla base di calcoli o ragionamenti scientifici, ma alla buona e in modo empirico. Bisognava fissare un valore percentuale invalicabile in una fase in cui il deficit dello stato francese appariva fuori controllo. Il tetto del 3% sul valore del Pil parve quello più ragionevole e da allora quel parametro – stabilito senza alcun fondamento razionale – non è stato più messo in discussione o verificato da alcuno. L’Europa l’ha fatto proprio come se si trattasse di un vero e proprio dogma economico-monetario, immodificabile e indiscutibile alla stregua di un comandamento biblico.
Questa storiella, in realtà già conosciuta, si presta ovviamente a diverse considerazioni, tutte nel segno dello scetticismo e di un certo disincanto. Oltre a farci capire in che modo bislacco si è andato strutturando il cosiddetto “sogno europeo”, sulla base di improvvisazioni e di incastri casuali, di scelte non ponderate e di intuizioni occasionali affidate alla clemenza della storia, ci dice molto su cosa sia e come funzioni la politica. Un’attività nella quale il caso e la contingenza rivestono un ruolo preponderante. E nella quale più che la volontà degli attori o la loro forza di previsione valgono piuttosto la fortuna, gli accidenti e gli scherzi del destino.
C’è un che di ironico nello scoprire che la regola fatidica del 3%, intorno alla quale da anni si accapigliano le cancellerie europee, chi pretendendone l’osservanza assoluta nel nome del rigore, chi chiedendone lo sforamento nel segno della flessibilità, che la cifra magica che ha costretto molti stati a politiche sociali dolorose e a finanziarie “lacrime e sangue”, sia il frutto di una banale convenzione da nulla suffragata, di una scelta maturata quasi per caso, nel giro di un’ora, nello studio di un oscuro funzionario statale. L’ironia si converte però in tragedia se si pensa che forse ci saremmo potuti dare, ragionando sempre alla carlona, il limite del 4% nel rapporto tra deficit pubblico e Pil. Sarebbe cambiato qualcosa? Beh, chiedetelo ai Greci.
Se la politica ideale, secondo alcuni, è calcolo e chiaroveggenza, è sapere valutare razionalmente i costi e i benefici delle decisioni assunte, la politica reale – come dimostra questa vicenda – è più spesso fatta di improvvisazione, di scelte imponderabili quanto alle cause e dagli effetti imprevedibili, di eventi che si succedono senza alcun piano o logica. Quello che non avviene per caso, avviene per necessità. Quella che ci appare l’astuzia o la sapienza dell’uomo di potere, spesso è solo fortuna o l’intuizione di un attimo.
E’ da poco apparso in lingua italiana (presso l’editore Rubbettino, a cura di Michele Chiaruzzi) un inedito assoluto, scovato negli archivi di famiglia, di Martin Wight, uno dei più grandi studiosi di politica internazionale del Novecento. Si intitola Fortuna e ironia in politica e spiega bene come non solo l’azione politica non coincide quasi mai con le intenzioni di chi la realizza, ma che i comportamenti che producono gli effetti più grandi e duraturi sono quelli imputabili al caso più che alla libera volontà degli individui. Non solo, ma i grandi cambiamenti – buoni o cattivi che siano – nascono spesso da piccoli atti e da decisioni occasionali, magari messi in opera da figure di secondo piano. Monsieur 3%, oggi tranquillo pensionato il cui nome gli europei semplicemente ignorano, non pensava certo di insaponare la corda alla quale l’Europa ha finito per impiccarsi. È lui il primo ad essere sorpreso dall’ottusa fermezza con cui la regola che ha casualmente inventato viene applicata in Europa: possibile che nessuno si chieda se per caso non sia sbagliata o da rivedere alla luce di uno studio serio o di una valutazione meno effimera?
Ma il libro spiega anche che la storia non si può programmare: quando si pretende di farlo – come nel caso dei totalitarismi novecenteschi – si ottengono risultati opposti a quelli annunciati: lo sterminio e l’oppressione al posto della felicità per le masse. Il rischio degli effetti non previsti lo corrono però anche le società democratiche e liberali allorché si fanno guidare invece che dalla prudenza e dal dubbio permanente dal desiderio di ingabbiare il futuro (nel desiderio, peraltro giustificabile, di non ripetere gli errori del passato) e di costruire una società migliore se non perfetta a colpi di regole ferree, di divieti, di imposizioni dall’alto, di norme oggettive e non revocabili. Le norme, proprio perché è impossibile prevedere con certezza gli effetti che produrranno e la loro effettiva validità, dovrebbe invece essere assunte per definizione come flessibili e non come assolute: si mantengono se servono all’obiettivo che ci si è dati, altrimenti si modificano. Tanto più se esse nascono, come nel nostro caso, da un intreccio di circostanze storiche e non sono il prodotto di una deliberazione approfondita.
Viene da chiedersi con quale faccia scriveremo sui libri di storia che la politica economica dell’Europa è stata costruita su un equivoco, su un numero scelto a caso. Il problema è che nello sforzo di dare un senso razionale ad una specie di beffa politica, svelata senza drammi o pentimenti dal suo autore, finiremo per prendere sul serio chi un giorno ci spiegherà quale sforzo intellettuale e quale sofferto dibattito ci siano voluti per scegliere, nell’interesse delle future generazioni, quella cifra fatale. Quando leggeremo di queste ricostruzioni ricordiamoci della caustica spiegazione che ne ha dato Grillo, con il quale per una volta si può concordare: due sembrava poco, quattro sembrava troppo, alla fine si decise per il tre. Mai dimenticarlo: la storia e la politica, quando non sono determinate dall’azzardo umano o dal destino, sono spesso governate – ahinoi – dalla stupidità, dall’imperizia e dalla superficialità dei singoli.
* Editoriale apparso sul quotidiano “Il Mattino” (Napoli) del 9 luglio 2014.
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