di Danilo Breschi

utopia“Luogo ideale, eppure inesistente o impossibile, l’utopia rappresenta l’essenza della cultura moderna”. Così Carlo Altini introduce “Utopia. Storia e teoria di un’esperienza filosofica e politica”(il Mulino, 2013), opera a più mani e voci, di cui è stato attento e solerte curatore. Tra storia e teoria il volume offre saggi differenti per stile ed orientamento teorico, esaminando autori e correnti filosofiche nelle varie fasi storiche della civiltà occidentale, dal mondo greco e medievale a quello moderno e contemporaneo, esplorando matrici e declinazioni sia religiose sia laiche del concetto di utopia.

Tra i molti saggi, tutti interessanti grazie proprio alla loro pluralità, meritano particolare menzione alcuni di essi. Anzitutto, la riflessione di Luca Baraldi sul messianismo ebraico, visto come sottofondo culturale ricorrente nelle modalità con cui molte comunità europee si sono autopercepite all’interno e rappresentate all’esterno nel corso dei secoli. L’era in cui il Messia farà la sua comparsa è, in ebraico, indicata come “mondo a venire” (‘olam ha-ba’), momento fatidico in cui la verità nascosta dovrebbe essere rivelata a tutti i figli d’Israele. Un altro tempo, ma anche un altro luogo che il messianismo politico si sarebbe impegnato a ricercare e impiantare, qui ed ora. Altro discorso per il messianismo mistico, concentrato sull’ermeneutica biblica e sostanzialmente avulso dalla realtà vissuta. L’eredità di entrambe le varianti del messianismo è stata influente in generale sulla cultura europea ed occidentale, determinante in particolare nella costruzione del pensiero utopico del Vecchio e Nuovo Continente.

Ad impreziosire il volume compare anche un saggio postumo di Paolo Rossi, eminente storico della filosofia scomparso nel 2012. Il suo contributo pare pensato e scritto per questi nostri giorni, incalzati come sono dalle notizie di recrudescenza di un fondamentalismo islamista espansionista e terrorista peraltro mai davvero sopito. Sulla scia dell’insegnamento di Montaigne, Rossi non ha esitato a ricordare che “la varietà e le differenze nelle idee e nei progetti e negli stili di vita sono un bene da difendere e non un male da estirpare” e che “la proliferazione è meglio dell’uniformità”. Aggiungendo un particolare di non poco conto: “quella della tolleranza è però una scelta assoluta e la tolleranza non richiede affatto che si sia tolleranti con coloro che intendono imporre con la forza la loro visione del mondo”. Relativisti si è solo se si accettano alcuni (pochi) valori assoluti. Altrimenti si pongono le premesse per il riduzionismo, per cui se tutto, ma proprio tutto, è relativo, decide infine chi è più forte. Perché una direzione, ossia una decisione, nel 99% delle situazioni umane, va pur presa. E se tutto si equivale in tutto e per tutto, decide solo la forza. Anche la possibilità che l’utopia getta dentro la realtà richiede un contesto che fa del pluralismo un valore non negoziabile. E il pluralismo à la convivenza di libertà, sostituzione della trattativa e del compromesso alla violenza che la parte, una parte, esercita ed impone nella sua pretesa di essere il tutto. L’assoluto è la mia libertà delimitata dalla libertà altrui. Una limitazione che deve essere reciproca, che si chiama rispetto, salvaguardia della dignità propria e altrui.

Si è soliti, nel linguaggio corrente, associare l’utopia all’immissione di sogni e ideali nella politica, senza i quali quest’ultima sarebbe cosa morta e mortifera. Si rischia però così di confondere le acque in una Babele in cui non si riesce più a distinguere vita individuale e vita collettiva. o meglio: in cui l’una è fagocitata dall’altra. E a proposito di Babele e della sua leggendaria torre di cui narra la Bibbia, l’utopia è qualcosa che di quel mito biblico condivide la valenza universalistica (prima della costruzione della torre “tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole”, dice il libro della Genesi, 11, 1-9) e, al contempo, l’aspirazione umana ad innalzarsi al cielo già durante la vita terrena. Paragonarsi a Dio con un atto di sfida e superbia, di eccesso e tracotanza. Di hybris, avrebbero detto i Greci. Con gli inevitabili effetti di caduta e rovina che ne conseguono. Su tutto questo, ed altro ancora, il saggio di Pier Paolo Portinaro contenuto nel volume offre utili spunti di riflessione.

Valida e meritevole di verifica è l’ipotesi di fondo che circola in molti contributi del volume, secondo cui l’utopia potrà restare categoria viva ed operante nel pensiero politico e sociale contemporaneo se saprà presentarsi sotto forma di una definizione dell’essere come “possibilità, libertà e contingenza, non come necessità”. Meno convincente, invece, la distinzione tra ideologia e utopia che Altini propone sulla scorta della celebre analisi sociologica di Karl Mannheim (1929). Ideologia ed utopia si distinguerebbero in virtù delle loro radici sociali: l’ideologia sarebbe espressione delle classi dominanti, e dunque avrebbe valenza costantemente conservatrice, mentre l’utopia sorgerebbe dalle miserie delle classi subalterne, e dunque possiederebbe una persistente istanza trasformatrice, indi rivoluzionaria. La storia passata, remota e ancor più quella a noi prossima, intendendo con essa quella del secolo appena trascorso, il Novecento, smentisce in gran parte questa dicotomia così netta. Se si prende per buono il nesso con la condizione materiale di chi esprime l’una e l’altra, molteplici sono stati i casi di ideologie partorite da ceti esclusi dalla stanza dei bottoni come da condizioni di agiatezza, e altrettanti i casi di utopie partorite da ceti benestanti e comunque in ascesa socio-economica, che pretendevano proprio l’estensione a tutti e a tutto, dentro e fuori persino i propri confini nazionali, di quanto essi stessi godevano in abbondanza o cominciavano a farlo. Esempi storici: da un lato, bolscevismo, nazismo e fascismo; dall’altro, i movimenti della contestazione studentesca esplosi attorno al 1968 nell’Occidente libero e quasi opulento.

Un’ultima perplessità resta alla fine della lettura del volume. Il carattere “desiderante e immaginario” dell’utopia costringe ogni configurazione di vita in comune a replicare un “progetto dato a priori e controllabile, secondo un’immagine fissata in una rappresentazione mentale”, per ricordare le parole con cui lo stesso Altini introduce il suo bel saggio di apertura. Resta insomma l’idea che utopia significhi realtà ingabbiata e privata del suo naturale, e perciò largamente imprevedibile, flusso vitale. E la vita in comune è pur sempre, e prima di tutto, vita. Detto ciò, resta indubbio che se per utopia si intende l’inaspettato che sempre, da un momento all’altro, può giungere a scompaginare la logica del reale, smentendo i pregiudizi su ciò che è possibile e ciò che non lo è, allora utopico è il senso del nostro vivere. E permane in tutta la sua validità l’insegnamento che si può dedurre dall’idea messianica, come ci spiega Luca Baraldi nel saggio sopra ricordato: “nel senso dell’attesa risiede la motivazione della rinascita, la tenacia della resistenza…”. Ma occorrono idee chiare e distinte in filosofia come in politica, e dunque qui stiamo parlando dell’utopia politica, dell’idea della possibilità del cambiamento radicale della società e delle istituzioni nelle quali viviamo ed agiamo, palingenesi indotta da un uomo o dagli uomini adeguatamente consapevoli ed organizzati. Uomini indìati, innalzatisi a Dio. E qui permane intatto il monito rilanciato da Dario Antiseri nel suo contributo al volume, memore come sempre della lezione popperiana: l’utopista “presume di conoscere la società perfetta” e siccome ritiene che occorre cambiare tutto, ma proprio tutto, “se bisogna ricominciare da capo, quale senso può avere – si chiede l’utopista – risolvere i singoli problemi?”. Ed ecco che dal desiderare il tutto si finisce per stringere il nulla…

Questo volume rende conto di tali rischi ricordando, oltre ad autori come Popper, Orwell o Huxley, anche la lezione primigenia di Aristotele, allievo critico di Platone, padre di tutte le utopie. Ci sarebbe infine da sviluppare a fondo una distinzione ulteriore, quella tra utopia ed ucronia, senza la quale non si coglie appieno quanto è accaduto alla filosofia politica degli ultimi due secoli, segnati dal mito possente della Rivoluzione, quella con la R maiuscola. Un’altra storia che richiede un altro libro.

 

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