di Alessandro Campi

untitledImmaginiamo che Luigi de Magistris non manchi di coscienza e di buon senso politico. Deciderà perciò secondo il suo metro di valori e secondo opportunità, sempre che non scattino anche nel suo caso gli obblighi della Legge Severino, quali conseguenze trarre dalla condanna in primo grado che gli è stata inflitta ieri dal Tribunale di Roma: un anno e tre mesi di reclusione e l’interdizione per un anno dai pubblici uffici. In questo Paese, nel corso degli anni, ministri, parlamentari, governatori di regione, sindaci, assessori e semplici consiglieri sono stati costretti alle dimissioni o a fare il fatidico passo indietro per molto meno: non per una condanna, ma per un rinvio a giudizio risoltosi in un’assoluzione, per un’inchiesta poi archiviata, per un avviso di garanzia, per un’intercettazione finita sui giornali, per un semplice sospetto trasformatosi in voce di popolo grazie alla solita campagna di stampa. Ma è anche vero che c’è chi, per molto di più, condanne in via definitiva e per reati assai più gravi che l’abuso d’ufficio, a dimettersi e a farsi da parte non ci ha mai nemmeno pensato.

Ciò detto il tema è un altro. Questa condanna (che oltre De Magistris ha riguardato anche il secondo degli imputati nel procedimento, il tecnico informatico Gioacchino Genchi) suona come sconfessione e censura rispetto ad un modo d’agire di certa magistratura italiana. Ci si riferisce alle inchieste “monstre”, tese non ad inseguire singoli colpevoli di reati, ma a smantellare apparati di potere e cricche affaristiche, condotte con grande dispiego di mezzi e spesso forzando le procedure, con un occhio sempre rivolto alla reazione dell’opinione pubblica e l’altro puntato minaccioso sulla classe politica. Inchieste spesso eclatanti, che se da un lato hanno accesso la curiosità morbosa degli italiani e attizzato la loro voglia di giustizia-vendetta, dall’altro poco o nulla, molto spesso, hanno prodotto sul piano giudiziario.

“Why Not”, cui si deve la fama mediatica di Luigi De Magistris, quella che poi gli ha consentito il salto vincente in politica, all’epoca è stata una di queste inchieste, che aveva per oggetto l’illecita gestione dei fondi pubblici della Regione Calabria, operata da quella che si sospettava fosse una loggia massonica politicamente trasversale. Nel mirino del magistrato, mentre era in forze presso la procura catanzarese, finirono, accanto a procacciatori d’affari, consulenti d’azienda e dirigenti pubblici, anche parecchi esponenti politici di primo piano, da Clemente Mastella a Francesco Rutelli, da Beppe Pisanu a Marco Minnitti. L’inchiesta ad un certo punto lambì persino l’allora premier Romano Prodi. Tutti costoro – da qui il processo che ha portato alla condanna di De Magistris – all’epoca furono indebitamente intercettati. Forse qualcuno ancora ricorderà il polverone mediatico sollevato dal loro coinvolgimento nell’inchiesta, dalla quale tutti sono alla fine usciti indenni e senza colpe. Quanto agli altri imputati, per così dire minori, alla fine di un tortuoso iter processuale, molti sono stati assolti, mentre altri hanno visto le loro condanne fortemente ridotte o prescritte.

Di inchieste del genere, giornalisticamente eclatanti ma giudiziariamente povere di risultati, pieni di nomi eccellenti nei confronti dei quali quasi mai si è arrivati ad una incriminazione o, meglio ancora, ad una condanna, nel corso degli anni ne abbiamo avuto diverse. E’ stata, come qualcuno ha scritto, una forma di giustizia-spettacolo: non a caso ne è nata una grande notorietà presso il largo pubblico per quei magistrati che se ne sono resi protagonisti. Inchieste che, con il senno del poi, erano destinate a sgonfiarsi proprio per l’enormità delle ipotesi di reato perseguite, per il numero abnorme dei soggetti coinvolti, per il carattere oggettivamente fantasioso, in alcuni casi, delle imputazioni, per gli errori di procedura e le forzature di legge sulle quali sono state talvolta costruite e che la stessa magistratura ha sanzionato.

Il problema è che queste inchieste, ai cui esiti penali finiscono per interessarsi solo i cronisti di giudiziaria e delle quali i cittadini si dimenticano dopo il clamore delle prime settimane, hanno avuto sulla società italiana un impatto emotivo e politico a dir poco devastante. Sono state uno dei fattori che ha contribuito al discredito generalizzato della politica e che ha alimentato l’onda del populismo giustizialista. Hanno dato l’impressione che in questo Paese non ci siano colpe individuali o reati singoli da perseguire (che è esattamente il compito della giustizia), ma che fosse da gettare a mare (o preferibilmente in galera) la classe politico-imprenditoriale nel suo complesso, senza distinzioni di appartenenze politiche.

Ma lo stile di queste inchieste – da giustizieri in lotta contro il male del mondo, da vendicatori contro i soprusi dei potenti, buttando nel calderone chiunque fosse soltanto sospettabile di aver commesso qualcosa di illecito – sono state anche un male, a conti fatti, per la stessa magistratura. Ad un certo punto è nato infatti il sospetto, tra i cittadini, che alcuni procuratori troppo arrembanti fossero più a caccia di pubblicità che di colpevoli. Da parte della magistratura ci si è poi resi conto che a voler smantellare nuove cricche affaristiche e logge massoniche deviate, nuove organizzazioni mafiose e associazione a delinquere transnazionali, si finisce magari per alimentare la fobia complottista degli italiani, ma senza la garanzia di mettere nelle mani della giustizia i veri criminali, che chissà perché sono quelli che riescono sempre a farla franca. Al tempo stesso, ci si deve essere accorti che, avendo esaurito gli italiani la loro dose di disgusto universale, la stessa magistratura ha finito per perdere quel consenso sociale di cui aveva goduto per decenni. Senza infine considerare che questo genere di inchieste, spesso con centinaia di indagati, condotte con scarso rispetto per i diritti e le garanzie dei singoli, hanno sempre avuto un che di tecnicamente mostruoso, che in uno Stato di diritto non dovrebbe essere considerato accettabile.

Sarebbe bello, ora che si parla di riformare la giustizia, chiamando la magistratura nel suo complesso a rivedere il proprio ruolo pubblico e professionale, se questo modo di applicarla potesse essere considerato un lascito del passato, l’immagine di una stagione della storia politico-giudiziaria italiana destinata a non ripetersi più.

* Editoriale apparso sul quotidiano “Il Mattino” (Napoli) del 25 settembre 2014.

 

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