di Daniela Coli
La politica è strategia comunicativa e di fronte al referendum per l’indipendenza scozzese, il messaggio principale di David Cameron è stato: “don’t break the family” (non rompere la famiglia) ed evitare “a painful divorce” (un divorzio doloroso), e questo è diventato lo slogan unionista, compresa l’imparziale Bbc. Come se l’Inghilterra, che ha costruito la sua fortuna su un divorzio, fosse diventata un paese cattolico e stesse affrontando un referendum sul divorzio. È stata la strategia giusta, però. Cameron non poteva pronunciare la parola “nation”, perché sarebbe diventato un qualsiasi Milosevic: quindi, “don’t break the family”, come ai tempi di Robert Filmer.
Lo slogan funziona se c’è il programma, come dice Alaistair Campbell, ma con i tory in crisi come i laburisti, il risultato scozzese potrebbe diventare la fortuna di Farage e Salmond e fare scomparire le vecchie destra e sinistra, sempre più simili. Lo Scottish Party di Alex Salmond ha avuto il 45% al referendum, Glasgow non è più un bastione laburista, ma “scozzese”, la Scozia non è più il serbatoio elettorale del Labour, e gli indipendentisti non sono affatto anti-UK, hanno soltanto una diversa concezione della democrazia. Se teniamo conto che lo Ukip (UK Independence Party) di Farage sta erodendo i tory, sempre più in declino, e punta a diventare l’ago della bilancia della politica “inglese” alle prossime elezioni politiche, lo scenario politico britannico potrebbe diventare completamente post-ideologico. Salmond e Farage sono rivali, ma hanno in comune lo slogan “I want back my country” e pensano a un UK fuori dall’autocrazia di Bruxelles, ma anche senza il political correct americano. Forse rivela gli umori del paese l’ondata di british pride contro l’ambasciatore US Matthew Barzun a Londra, reo di avere rivelato di essere stanco della cucina brit, perché da quando è arrivato gli è stato servito agnello e patate per ben 108 volte. Con perfetto understatement, il 2 settembre, il “Guardian” gli ha risposto con Stuart Heritage (il nome è un programma) che qualsiasi idiota può andare in Italia a mangiare un buon piatto di pasta, perché l’UK col suo cibo insopportabile ha sconfitto l’Invincibile Armada, Napoleone e via dicendo. Ovvero, noi non siamo cuochi come gli italiani, noi vinciamo le guerre e siamo i migliori, perché abbiamo sempre vinto: le sconfitte in Iraq e Afghanistan sono colpa degli americani, perché non sanno cosa sia un vero impero (Niall Ferguson docet). Neppure possiamo smentirli, perché gli “inglesi”, superbi, cinici e spietati, le guerre le hanno sempre vinte, almeno fino all’Iraq e all’Afghanistan.
Da anni il paese dei cuochi sta tentando di cambiare, ma rimane immobile, perché lo slogan funziona se c’è il programma. Negli ultimi vent’anni siamo diventati tutti liberali, ma il liberalismo, come sostiene Giovanni Sartori, ha perso la sua funzione storica col suffragio universale. Per quattro secoli il liberalismo ha costituto l’esperienza fondamentale dell’Europa, senza che nessuno sentisse il bisogno di definirsi liberale. È diventato una bandiera politica nell’Ottocento, dopo le rivoluzioni del ’48, per contrapporsi al socialismo, ma è stato depotenziato dal suffragio universale nel ‘900, perché i parlamenti hanno perso il potere di frenare le tasse e le spese del governo: per accontentare gli elettori si è arrivati allo Stato tuttofare italiano che promette di utilizzare denaro per il welfare e poi lo utilizza per finanziare le lobbies e corporazioni della nostra House of Cards. Il liberalismo è un aggettivo: sia nella democrazia liberale, sia nel socialismo liberale, il sostantivo si mangia l’aggettivo e nei quattro secoli in cui gli europei sono stati liberali senza definirsi tali, l’Europa era governata da monarchie. Benedetto Croce, che fu anche un protagonista della politica, in Etica e politica, nel 1931, scrisse che per conseguire un obiettivo politico, “tutto diventa mezzo di politica, non escluse in certa guisa la moralità e la religione”. Anche il miracolo di san Gennaro e anche concetti come l’uguaglianza, la libertà e la fraternità, “che quale sia il loro valore teoretico, sono nondimeno grosse realtà passionali”. La libertà è una grande passione degli individui e dei popoli, ma gli Stati non si fondano sulla libertà: si fondano sulla sovranità, l’essenza dello Stato, perché è l’organizzazione dei poteri di governo dello Stato (potere legislativo, esecutivo, giudiziario) e se questi poteri non sono distinti, non può esistere neppure la libertà individuale e collettiva.
Il caso De Magistris è la conferma del caos italiano e della grave crisi della sovranità: per ricostruire lo Stato italiano occorre qualcosa di più della sola libertà: bisogna rifondare la nostra sia pure limitata sovranità. Il Regno Unito, la patria del liberalismo, è orgoglioso e geloso della propria sovranità, e Margaret Thatcher depotenziò i sindacati, privatizzò, liberalizzò la società britannica, depenalizzò il reato di omosessualità, ma non si definì mai liberale, perché era una conservatrice. Liberò il Regno Unito dalle catene della sinistra, come direbbe Claudio Cerasa, ma non era liberale e fece anche la guerra delle Falkland, la prima guerra britannica dopo l’intervento Suez nel ’56. La fece perché “right or wrong, my country” è principio irrinunciabile della politica britannica e per dimostrare che la Gran Bretagna era ancora una potenza militare da rispettare. Thatcher fu perfettamente in linea con la storia british: senza la rottura con Roma e le tante guerre combattute e vinte per il dominio degli oceani e dei mari l’Inghilterra non sarebbe mai diventata un impero, non avrebbe mai avuto compagnie con il monopolio del commercio su gran parte del mondo, il capitalismo britannico non sarebbe stato lo stesso e lo scozzese Adam Smith non avrebbe scritto La ricchezza delle nazioni.
Engels scrisse a Marx che in Gran Bretagna non sarebbe mai nato un partito operaio, perché gli operai inglesi pensavano della politica come i borghesi e mangiavano allegramente la loro parte del monopolio inglese sul mercato mondiale e sulle colonie. Gli operai britannici non si sarebbero mai convertiti alla lotta di classe, perché la ricchezza delle nazioni era per essi il risultato della lotta tra le nazioni ed erano fieri dell’impero, perché dava anche ad essi una vita migliore. Né dobbiamo dimenticare il realismo di Darwin: alla base dell’evoluzionismo c’è la lotta per l’esistenza, sopravvive solo chi si adegua al proprio ambiente e in questo modo contribuisce pure all’evoluzione della specie, anche se il pesce grande mangerà sempre il più piccolo. In confronto a Darwin, Nietzsche con la sua volontà di potenza, è un fanciullino. Il capitalismo e l’impero britannico ammirati da Marx, seduto nella cupola del Panizzi a K4, non sarebbero mai esistiti se la proprietà privata non fosse stata uno dei pilastri della sovranità britannica. Senza il diritto alla proprietà individuale non esiste la libertà di commercio, né d’impresa. Senza la capacità british di vincere le guerre (perfino le guerre con la Cina per il monopolio del commercio dell’oppio), di eliminare i rivali commerciali o conquistare nuovi mercati, la teoria del libero scambio sarebbe servita a ben poco. Occorre dunque un po’ di realismo politico, perché nella storia con la sola libertà si va poco lontano. Lo capì anche la povera madame Roland, mentre veniva condotta alla ghigliottina. Vedendo la statua della libertà, pare abbia detto: “Libertà, quanti crimini si commettono in tuo nome”.
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