di Alessandro Campi

untitledLa scommessa di un centrodestra “diversamente berlusconiano”, secondo le parole di Angelino Alfano nei giorni della sua presa di distanza dal Cavaliere, si è dunque risolta in uno scacco. La nascita, annunciata nei giorni scorsi, di un gruppo parlamentare unico tra Ncd, Udc e Popolari per l’Italia, dal quale ben presto dovrebbe nascere un nuovo partito centrista, apre una pagina nuova e piena d’incognite, ma chiude con certezza quella che aveva portato i fuoriusciti di Forza Italia a immaginare un’impresa che sinora non è riuscita a nessuno: mettersi contro Berlusconi, dopo esserne stato un fedele alleato, con l’idea di sopravvivergli e di accaparrarsene l’eredità.

Cosa non ha funzionato nel progetto del Nuovo centrodestra, ora che lo stesso Alfano ne annuncia la messa in liquidazione e dopo che i sondaggi ne avevano certificato il progressivo evaporamento?

Per cominciare non si è realizzata la premessa mai dichiarata intorno alla quale è stata costruita l’intera operazione: la scomparsa del Cavaliere dalla scena pubblica, il suo definitivo azzoppamento politico-giudiziario. Sopravvissuto alla sentenza milanese sul caso Ruby, rimesso diabolicamente in gioco da Matteo Renzi col Patto del Nazareno, Berlusconi ha perso consensi ma ha mantenuto comunque un suo ruolo. Soprattutto ha dimostrato di avere ancora un ascendente sull’elettorato che è stato il suo per due decenni.

Si è poi rivelata insostenibile o difficile da far digerire all’elettorato la contraddizione di un partito che, sin dal nome, si è posto come alternativo al centrosinistra ma che – nel nome della responsabilità, con coerenza, ma incidendo assai poco sulle decisioni dell’esecutivo – ha scelto di governare insieme a Renzi. Non solo, ma strada facendo si è anche scoperto che il vero alleato di questo governo, dal punto di vista strategico, non è l’Ncd, che fa parte integrante della maggioranza, ma Forza Italia, che nominalmente è all’opposizione. Oltre al danno (elettorale), la beffa (politica e d’immagine).

Poco convincenti sono anche apparse, sin dal primo momento, le premesse politiche sulle quali il Ncd è nato. Tutto ciò che di critico Alfano e soci hanno detto su Forza Italia (la deriva populista e demagogica del berlusconismo, il culto della personalità, la mancanza di competizione interna e di selezione secondo il merito, il partito-caserma), nel centrodestra che fu era già stato detto da Gianfranco Fini. E caso vuole che all’epoca ad attaccarlo per lesa maestà con più veemenza erano proprio Alfano, Cicchitto, Quagliariello. In politica la credibilità e la coerenza non sono tutto, ma valgono pur sempre qualcosa agli occhi dei cittadini.

Sempre sul piano per così dire politico-culturale l’Ncd attacca oggi la deriva nichilista e libertaria di Forza Italia, che sembra aver scelto Francesca Pascale come proprio ideologo. Ma sarebbe facile argomentare che c’è più coerenza nell’apertura ai diritti civili di un partito che storicamente si è sempre detto liberale, che nell’intransigenza dottrinaria, al limite del clericalismo, di un gruppo dirigente che si è formato nei ranghi del partito radicale (Roccella, Quagliariello) o di quello socialista (Sacconi).

Si potrebbe anche addurre una motivazione sociologica che spiega la debolezza ab origine dell’Ncd: la sua forza elettorale (e parte significativa della sua dirigenza) ha matrice in prevalenza siculo-campana. Evoca dunque antiche clientele meridionali, legate al sottogoverno e al notabilato parlamentare. Nulla, in un’epoca di antipolitica dilagante, che possa lasciar presagire la comparsa di un soggetto radicalmente innovativo.

Altro elemento di costitutiva gracilità dell’Ncd è l’essere nato, a conti fatti, da una classica operazione di Palazzo, da una secessione tutta interna al gruppo dirigente di Forza Italia. Nella storia politico-parlamentare italiana di operazioni del genere se ne sono visti numerose, ma nessuna ha mai funzionato alle urne. L’Ncd pensava di essere l’eccezione alla regola?

Strada facendo è anche successo che l’Ncd sia stata costretta ad una curiosa metamorfosi. Partito moderato e centrista, alieno dai toni populisti del berlusconismo, ha dovuto a sua volta radicalizzarsi sul piano politico per rendersi riconoscibile agli occhi dell’elettorato potenziale. Negli ultimi mesi Alfano ha dunque alzato più volte la voce in materia di sicurezza e di immigrazione, da ultimo si è posto come baluardo tradizionalista contro i matrimoni tra omosessuali. Si è messo insomma a fare concorrenza, anche se con toni meno veementi, alla destra leghista e post-fascista. Nello stesso tempo, ed ecco il paradosso, il populista Berlusconi si è invece scoperto una vocazione da leader moderato e pragmatico, da padre della patria aperto al dialogo e al confronto: niente più critiche all’Europa, basta attacchi ai giudici, non una parola sugli immigrati. Il moderato insomma è diventato il Cavaliere.

Che succede ora? Alfano, anche dopo la rottura con Berlusconi, ha sempre detto che la sua prospettiva strategica era la riunificazione del centrodestra sotto un’unica bandiera. Questa prospettiva sembra tramontata e lascia il passo ad un’aggregazione centrista che però sembra darsi come unico orizzonte di continuare a sostenere il governo in carica. Si comprende la scelta tattica, ma manca l’orizzonte strategico, che invece l’Ncd a suo modo aveva.

Il problema è che Berlusconi è debole al punto da non rappresentare un pericolo per Renzi, che infatti se lo porta a braccetto, ma è ancora forte abbastanza per impedire – fosse pure con un dieci per cento di consensi – qualunque ipotesi di rinascita del centrodestra. Anche Alfano, a quanto pare, si è dovuto arrendere a questa dura evidenza.

 

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