di Alessandro Campi
L’immagine (falsa ed errata) di Paolo VI che si è radicata nell’immaginario popolare, complice anche una pubblicistica incapace di emanciparsi da certi cliché interpretativi, è quella di un Papa la cui azione si è svolta nel segno di un perpetuo tormento. Ad un tratto caratteriale malinconico ed eccessivamente riservato, al limite della remissività, si sarebbe aggiunto un modo di fare nel segno dell’amletismo, del dubbio cronico e quindi dell’irrisolutezza.
C’è però una sua riflessione autobiografica, risalente al 2 luglio 1963, che smentisce nettamente questa immagine e chiarisce bene cosa si nascondesse dietro i suoi conflitti interiori: “Vi è chi sa deliberare d’istinto, o chi si contenta di un esame empirico delle circostanze da esaminare. A me occorre una certa razionalità, che talvolta inceppa la rapidità delle decisioni; vorrei che questa razionalità, che è poi la prudenza, fosse sempre onestissima e che un amore la percorresse: l’amore a Cristo”.
La sua non era dunque incapacità a decidere per eccesso di dubbio, ma ponderatezza, calcolo non utilitaristico delle circostanze, riflessività imposta dalla delicatezza del ruolo ricoperto: la razionalità abbinata alla prudenza (e sorretta dalla fede), nelle sue stesse parole, non impedisce la decisione, ma prova a darle un fondamento fattuale e a renderla, se possibile, più efficace, nonché all’altezza dei problemi da risolvere.
La prova storica di quest’atteggiamento, determinato e risoluto pur nell’apparenza della titubanza come stile di governo e disposizione d’animo, Paolo VI l’ha data con riferimento a quello che forse rappresenta il risultato più importante del suo pontificato: aver internazionalizzato in modo definitivo la Chiesa, mettendola nella condizione di interloquire col mondo e di misurarsi coi suoi drammi e le sue speranze.
Quest’attenzione alla dimensione universale del messaggio cristiano e al carattere globale delle sfide poste al mondo dalla modernità, Montini l’ha probabilmente sviluppata sin dagli esordi della sua carriera ecclesiastica. Lo confermano alcuni passaggi, solo apparentemente minori, della sua biografia. Il suo primo incarico importante, tra il giugno e l’ottobre del 1923, fu quello presso la Nunziatura apostolica in Polonia. Dal 1931 al 1937, nella Pontificia Università Lateranense, insegnò Storia della diplomazia pontificia. C’è poi da considerare la lunga permanenza di monsignor Montini, con ruoli crescenti, ai vertici della Segreteria di Stato, il che lo mise al centro di delicate tessiture politico-diplomatiche: ad esempio, nell’autunno del 1942, i tentativi di una pace separata dell’Italia perseguiti da Maria José di Savoia in collegamento con ambienti americani. Così come fu precedente alla sua nomina papale la sua scelta di operare fuori dai confini italiani: è dell’agosto 1951 una sua importante visita negli Stati Uniti e in Canada.
A partire da queste premesse l’internazionalizzazione, sotto forma di ecumenismo e di apertura al dialogo con le confessioni non cristiane, di impegno sul versante della pace, del disarmo e della politica negoziale nell’epoca della Guerra fredda, di contrasto al totalitarismo comunista come all’autoritarismo di destra, di lotta contro la povertà su scala globale, fu come accennato il tratto qualificante del suo pontificato. Un impegno che Paolo VI presentò sempre come un lascito politico-morale del papato di Giovanni XXIII, da lui ripreso e sviluppato con coerenza.
Andarono in questo senso atti quali la costituzione, nel maggio 1964, del Segretariato per i non cristiani, finalizzato al dialogo con le altre confessioni religiose; l’istituzione, nel settembre dello stesso anno, del sinodo dei vescovi, l’assemblea rappresentativa dell’episcopato mondiale che sotto il suo regno, in applicazione del principio di collegialità stabilito dal Concilio, si sarebbe riunita ben cinque volte; la modifica, nel settembre 1963, dei criteri di composizione della Curia romana, sempre più aperta al coinvolgimento dell’episcopato dei diversi Paesi; la nomina, nei sei concistori promossi da Paolo VI tra il 1965 e il 1977, di centoquarantaquattro cardinali in gran parte non italiani; la scelta di celebrare ogni anno, a partire dal 1968, la Giornata mondiale della pace; l’intensificarsi delle relazioni diplomatiche con i diversi Stati (raddoppiarono durante il suo pontificato) e il coinvolgimento della Chiesa nella vita delle diverse organizzazioni internazionali governative; l’intensificarsi della linea concordataria; la politica di dialogo e apertura, contestata anche all’interno della Chiesa, con i Paesi dell’Europa dell’Est (la cosiddetta “Ostpolitik”).
A dare coerenza teologico-dottrinaria a questo percorso furono in particolare le due encicliche Populorum progressio (26 marzo 1967), dedicata alla necessità di riequilibrare le ricchezze tra il Nord e il Sud del mondo, e Humanae vitae(25 luglio 1968), dedicata al controllo naturale delle nascite e allo sviluppo demografico del pianeta.
Ma il segno più tangibile di questa sua proiezione sulla scena del mondo, resa necessaria dal progredire della scristianizzazione e dal bisogno per la Chiesa di aprisi alle istanze di un’umanità lacerata dai conflitti e dalle divisioni (ideologiche ed economiche), furono soprattutto i suoi viaggi, alcuni dei quali di grande impatto simbolico. A partire dal primo in veste pontificia, realizzato nel gennaio 1964 in Palestina, dove nessun papa si recava dai tempi di Pietro. Seguito, nel dicembre dello stesso anno, da quello in India, per partecipare al trentottesimo congresso eucaristico internazionale, segnato dalla denuncia della corsa agli armamenti e della povertà di massa; e da quello dell’ottobre 1965 a New York, dove tenne uno storico discorso alle Nazioni Unite (“Mai più la guerra! Mai più!”).
Tra il 1967 e il 1970 furono sei i viaggi internazionali del papa, che lo portarono in tutti e cinque continenti, dando un valore autenticamente globale alla sua azione pastorale: Portogallo (a Fatima, nel cinquantenario delle prime apparizioni mariane), Turchia, Colombia, Svizzera, Uganda, per finire con la missione che nel 1970, nell’arco di due settimane, lo portò di seguito in Iran, Pakistan, Filippine (dove subì un celebre attentato), Samoa orientali, Australia, Indonesia, Hong Kong e Sri Lanka. Ma furono simbolici e politicamente significativi anche i due viaggi mancati a causa dell’opposizione dei rispettivi regimi: quello nella Polonia comunista e quello nella Spagna franchista.
Dopo Paolo VI, il primo papa globale, la Chiesa non è più stata la stessa.
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