di Danilo Breschi

imagesHo per le mani il volume di Simona Forti: I nuovi demoni. Ripensare oggi male e potere, Milano, Feltrinelli, 2012. E mi dico: finalmente un libro di alta filosofia scritto in una lingua italiana tanto bella e pulita che il concetto è messo a lucido fino al punto che una riflessione così ardua e condotta sul filo del rasoio teoretico, pur parlando del male, apre al bene. Tanto può la bellezza di una parola riconciliata con il pensiero. Tutta questa chiarezza nella profondità è frutto di uno scavo filosofico che Simona Forti conduce da tempo, grazie al confronto con autori come Hannah Arendt, di cui è una delle principali interpreti in Italia e non solo. Questo libro nasce da un’urgenza etica, quella che l’Autrice presenta come obbligo di non smettere di parlare del male politico. Il nesso con il potere è dunque al centro di una riflessione che affonda le proprie radici nella filosofia dell’Ottocento, nella progressiva secolarizzazione di presupposti teologici vanificanti ogni precedente teodicea, anche laica.

La svolta epistemologica ebbe luogo in forma non filosofica, ma letteraria, attorno agli anni Settanta del secolo XIX, con la pubblicazione del romanzo I demoni di Dostoevskij. L’«abissale immaginazione» dello scrittore russo mise in scena personaggi che hanno dato forma ed espressione imperituri allo spettro del nichilismo, ossia quell’ultima epoca dell’umanità in cui il Niente prende il posto di Dio, «quel posto che era già stato usurpato dall’uomo, divinizzato dall’ottimismo positivista» (p. 4). Legittimo tradurre in categorie filosofiche le finzioni letterarie dostoevskiane, così penetranti e lungimiranti da rendere sensato parlare di un “paradigma Dostoevskij”, secondo cui la questione del male è da pensarsi come indissolubilmente legata al problema del nichilismo. Lo scrittore russo ha esplicitato ciò che Kant non osò pensare, ma solo evocare, e che Schelling aveva invece reso possibile: la libertà della volontà che può anche volere il male, può scegliere il nulla, l’annientamento, il caos. Ecco la malvagità svincolata e tetragona rispetto ad ogni giustificazione razionalistica.

Reso distinguibile dal male fisico e da quello metafisico, il male morale acquista una sua autonomia filosofica con la riflessione kantiana e la domanda che si erge non è più tanto “da dove viene il male?”, quanto piuttosto “perché commettiamo il male?”. Con Kant il male non è altro che un eccesso dell’autoaffermazione, una passione smodata per il proprio Sé. Nonostante ciò l’uomo kantiano non può desiderare il male in quanto tale, non può volere il male sapendo che è male, non può ribellarsi per amore della ribellione, che è esattamente ciò che fanno i demoni dostoevskiani. Il male radicale è sia una “malattia della ragione” sia una “patologia del sentire”. Il problema ontologico di Schelling investiva la pretesa del finito di elevarsi ad infinito. Dostoevskij dà forza espressiva ineguagliabile a questo delirio di libertà, desiderio di sfondare ogni limite e ogni fondamento per asserire la possibilità dell’uomo-Dio. Il personaggio di Stavrogin, incarnazione del nichilismo compiuto, fa il male, produce sofferenza e dolore senza la minima traccia di interesse personale, e infine senza nemmeno provare una qualche forma di piacere, pur pervertito che sia. L’indifferenza al bene e al male: questa l’essenza del male radicale impersonato dal protagonista del romanzo dostoevskiano. L’abbandono dell’essere per il nulla, l’«odio ontologico» è la radice metafisica della malvagità, non più semplice eccesso di egoistico amor di sé ma volontà di negazione e distruzione del creato, dell’essere in quanto “è”. Farsi Dio vorrebbe dire essere causa sui e libertà autofondata, capacità illimitata di creazione ex nihilo. Per una “ipertrofia della ragione” la volontà scivola nel delirio di onnipotenza, ma l’unica potenza che può e sa esprimere è quella della distruzione dello stesso Creato in cui si appalesa l’esistenza di Dio, secondo il credo cristiano.

Riconosciuta la grandiosità dello schema interpretativo dostoevskiano entro il quale si è reso pensabile il male (in triangolazione, cioè, con nichilismo e potere), Simona Forti ritiene indispensabile uscire dalla unilateralità di quell’impostazione per comprendere il nesso tra male e potere nel nostro contesto attuale. Muovendosi tra Nietzsche, Freud e Heidegger, Lévinas, Foucault e gli scrittori del dissenso anticomunista mitteleuropeo, quali Jan Patočka, Vàclav Havel e Milan Kundera, l’Autrice tenta un’ambiziosa ma persuasiva genealogia alternativa per un nuovo modo di pensare criticamente la presenza del male, e dunque rispondere alle relative fenomenologie di esso da cui la nostra contemporaneità rischia di rimanere ammutolita e attanagliata.

Le pagine finali hanno il pregio di muoversi oltre l’orizzonte ristretto del post-strutturalismo che individua in ogni processo di soggettivazione una qualche forma di assoggettamento. Rielaborando spunti anche foucaultiani si propone una revisione intelligente del concetto arendtiano di “banalità del male”. Viene in aiuto dell’Autrice l’opera di Primo Levi, ed in particolare I sommersi e i salvati, riflessione sofferta ed inquietante sulla “normalità” del male. Nessuna concezione demonologica né sostanzialistica del potere, piuttosto un’indagine microfisica della natura sempiterna delle relazioni di potere, fondate su dinamiche mobili dove a pervertire ogni morale è una accanita volontà di sopravvivenza. Obbedienza e sottomissione, di più: rinuncia alla libertà di scelta, in cambio di tutela e benessere. Il potere che si fa “pastorale”. E in ciò le riflessioni dello scrittore sopravvissuto ad Auschwitz si intersecano proficuamente con quelle di Elias Canetti e la convinzione di questi che «la situazione del sopravvivere è la situazione centrale del potere». Sarà dunque cercando di far coincidere vita vissuta ed etica enunciata che ciascuno di noi potrà realisticamente opporre un freno al male dell’eccesso di potere; modificando, nelle pratiche quotidiane, intenzioni e modalità delle volubili e vulnerabili relazioni e interazioni tra soggetti sempre “umani, troppo umani”.

Non cedere alle seduzioni del potere, non compromettersi con il male. Per essere meno criptici e più immediati, prendiamo il lato del potere e un esempio che ci offre la stessa Autrice. Si potrebbe fare come i Cinici dell’antica Grecia, ossia non temere di perdere nulla perché a nulla aspiriamo. Né beni, né ricchezza, né riconoscimenti, né segni del potere. Fare come Diogene, quel giorno in cui lo cercava Alessandro il Macedone, il conquistatore di grandi spazi, dall’Egitto alla Persia, fino ai confini dell’India. Alessandro voleva conoscere di persona questo strano filosofo di nome Diogene, all’epoca molto famoso. Trovatolo sulla spiaggia, nudo a prendere il sole, si narra che Alessandro abbia rivolto la fatidica domanda di ogni potente: “Che cosa posso fare per te? Quali sono i tuoi desideri? Sono disposto a fare qualunque cosa!”. La risposta di Diogene fu sorprendente: “Voglio soltanto che tu ti sposti, perché mi stai coprendo il sole!”.

Insomma, una soluzione (parziale) potrebbe essere: non avere più bisogno di quel bisogno fondamentale che è il potere. Più facile a dirsi che a farsi, però, perché personalmente resto dell’idea che la persona più libera a questo mondo è chi ha tanto quanto basta da non dover chiedere aiuti o favori a nessuno. E, oltre a ciò, nient’altro brama. Una misura interiore, che è inclinazione e disciplina assieme. In teoria, libero può essere anche chi non ha niente, o meglio: niente oltre lo stretto necessario per sopravvivere, come sembrerebbe suggerirci la filosofia cinica. Non è però affatto scontato che questo sia ancora praticabile con successo nelle nostre società (se mai lo sia stato…). E può funzionare per lo più, se non esclusivamente, in cambio di una fuga dalla “città” (polis). Dentro la polis contemporanea ci si riduce allo stato di homeless che però scivola inevitabilmente in nuove e vecchie dipendenze. E poi per il nullatenente e nulla-aspirante resta scoperto anche l’altro fianco: la forza di chi ha su chi non ha. Resto dunque dell’idea che solo chi ha “roba” a sufficienza possa godere e tutelare la propria libertà come indipendenza, se non assoluta autonomia (dato che a qualche norma non potrai mai sfuggire, fosse anche un obbligo “naturale”, fisico).

E poi va aggiunta una virtù non secondaria in questo contesto: il coraggio. Coraggio come rifiuto della sopravvivenza quale surrogato dell’esistenza libera e responsabile. Responsabile è chi è capace di rispondere dei propri atti e pensieri davanti a chiunque, anzitutto se stessi. E pagarne le conseguenze. E difendersi se aggredito. Se sei ricco ma pauroso sei meno libero di uno povero ma coraggioso. Dunque, piena autosufficienza economica e coraggio morale (e fisico) completano lo status della libertà vera e propria. Solo allora sarai libero, nel senso che sceglierai secondo criteri che niente avranno a che spartire con il bisogno materiale e morale. Ma detto ciò: potremo mai essere davvero in-dipendenti? Privi in assoluto della dipendenza, di qualsivoglia dipendenza? Possiamo eliminare ogni bisogno morale?

Peraltro, non è affatto detto che ogni bisogno morale sia negativo, anzi. Sempre per gli antichi Greci – e non solo loro – l’amore ha molto a che fare con il bisogno. Bisogno di relazione? Anche. È nella relazione che si insinua il male del potere, oltre al sempre benevolo e benvenuto amore. Perché il potere è una relazione, proprio come l’amore. Forse è che la vita è sempre una questione di dosaggio ed equilibrio nella tensione tra opposti. E così sempre sarà.

 

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