di Danilo Breschi
9 novembre 1989. Venticinque anni fa crollava il muro di Berlino. C’è qualcosa di enorme, in occasione di questa ricorrenza, che merita di essere ricordato ed evidenziato proprio per restituire a pieno il senso di quanto importante possa essere questa ricorrenza. Ci aiutano in tal senso le pagine che Alberto Indelicato ha scritto e pubblicato nel 1999, a dieci anni dall’evento. Indelicato ebbe il privilegio di essere testimone oculare del processo che portò al crollo del muro. Nella seconda metà degli anni Ottanta ricoprì l’incarico di ambasciatore d’Italia a Berlino-est, nella Repubblica Democratica Tedesca (in tedesco la sigla era DDR, Deutsche Demokratische Republik). Il suo posto di osservazione gli ha fornito dunque una possibilità, incomparabile per dettagli e approfondimento d’analisi, di raccontare come e perché cadde quel muro. E che cosa vi era al di là, rispetto al cosiddetto Occidente. Anzitutto, la prima grande peculiarità della DDR era che non si trattava, come per gli altri Paesi comunisti, Unione Sovietica inclusa, di “uno stato che nella sua azione si ispirava ad una ideologia, ma piuttosto una ideologia che, per realizzarsi e provare la sua validità, cercava uno stato e addirittura un popolo” (Martello e compasso. Vita agonia e morte della Germania comunista, pref. di S. Romano, Luni Editrice, Milano-Trento 1999, p. 14). Ciò spiega perché, una volta che il comunismo veniva meno come ideologia, ossia come interpretazione e spiegazione della realtà politica e sociale al fine di dominarla ed organizzarla, anche il regime della Germania orientale perdesse ogni ragion d’essere. Non aveva più né basi materiali né legittimazione ideale. Dunque, il crollo del muro in quel giorno di novembre del 1989 e, con esso, il rapido dissolvimento della DDR rappresentarono, e tuttora rappresentano, il fallimento dell’ideologia comunista, sempre inteso come sistema di idee applicato alla storia e tradotto in regime politico e sociale. Prima e più del crollo della casa-madre, l’Unione Sovietica, che avvenne di lì a due anni. Anche se fu proprio l’Urss ad innescare quel che avvenne nei Paesi satelliti e dunque anche nella DDR, con il fondamentale ruolo di Gorbaciov, non va dimenticata né sottovalutata l’importante rivolta non violenta che in Polonia fu compiuta negli anni Ottanta da Solidarność e dal suo leader, Lech Wałęsa. Nel corso del 1986 il segretario del Partito comunista dell’Unione Sovietica (Pcus), carica assunta nel marzo dell’anno precedente, denunciò la stagnazione economica della patria del “socialismo reale” imputandola allo stesso sistema socialista. Fece di più, affermando infatti quanto segue: “La teoria secondo cui esistono due tipi di economia, quella socialista e quella capitalista, deve essere rivista: esiste una sola economia e noi dobbiamo cominciare a guardare tutto in questa prospettiva”.
La DDR aveva invece costruito la propria identità sull’ortodossia e la fedeltà ai principi e ai metodi di gestione socialista dell’economia, ed era sembrata esservi riuscita anche in occasione di una crisi nei primi anni Settanta. Il problema è che tutto si reggeva su una auto-illusione alimentata con l’uso della forza e della repressione da parte di un regime poliziesco. Di questo era simbolo il muro crollato venticinque anni fa. Ricorro ancora alla testimonianza e ai dati forniti dall’ambasciatore Indelicato. La DDR, all’inizio degli anni Sessanta, “era l’unico Paese dal quale era possibile andar via senza eccessiva difficoltà, grazie alla situazione di Berlino. E in effetti nel 1959 il numero delle persone che avevano lasciato il Paese per passare nella Repubblica Federale era stato di 144.000: molti, certamente, ma molti meno dei 330.000 del 1953. Nel 1960 la tendenza si era rovesciata: ad abbandonare la Germania furono in 200.000. Nei soli sette mesi successivi ben 155.000 “votarono con i piedi”, per usare l’espressione di Lenin. Addirittura in luglio e nei primi giorni di agosto il ritmo delle “diserzioni” dalla DDR fu in media di duemila persone al giorno” (ivi, p. 69). Si noti bene: “Dal momento della sua proclamazione la Repubblica era stata abbandonata da più di due milioni e mezzo di suoi cittadini” (ibid.). Allora si corse ai ripari, e nella notte tra il 12 e il 13 agosto del 1961 furono eretti sbarramenti provvisori lungo tutte le vie di comunicazione con Berlino occidentale, fu quindi steso del filo spinato, mentre polizia (la cosiddetta “polizia popolare”, Volkspolizei) e i cosiddetti “gruppi di combattimento” tenevano lontana la popolazione e impedivano gli ultimi disperati tentativi di fuga. Nelle settimane e nei mesi successivi si ampliarono gli sbarramenti e si perfezionò il sistema di controllo. Soprattutto si costruì il muro, alto diversi metri e lungo 43,1 km, in modo da dividere nettamente e (si auspicava) ermeticamente Berlino in due parti, occidentale e capitalista contro orientale e comunista. La divisione si completò interrompendo ogni altra forma di comunicazione (trasporti, telefoni, telegrafi). Indelicato ci ricorda come la protesta che gli alleati occidentali indirizzarono ai sovietici ottenne soltanto che fosse consentito ai militari inglesi, francesi e statunitensi il passaggio attraverso alcuni checkpoints. Il muro, ufficialmente chiamato “Barriera di protezione antifascista”, ottenne l’obiettivo perseguito dal governo della DDR: “nella seconda metà di quell’anno [1961, ndr.] riuscirono a fuggire in occidente non più di 8500 persone, spesso con grave rischio della vita. Negli anni successivi il numero diminuì sempre più, sino a ridursi a poche decine negli anni ottanta”. Altre fonti ricordano come oltre 600 persone furono uccise dai soldati delle truppe di frontiera della DDR, oppure morirono nel corso del tentativo di fuga. Tra il 1961 e il 1989, solo a Berlino, lungo quei 43,1 km, ci furono almeno 136 morti.
Ha ricordato Andrea Tarquini su “la Repubblica” del 6 novembre scorso: “Il paese-galera credette di sopravvivere solo nelle menti dei gerarchi: dicevano ‘siamo la decima potenza industriale del mondo’ calcolando il PIL col cambio ufficiale, un marco tedesco uguale un marco dell’est. Il cambio reale era un marco dell’ovest per dieci dell’est. Per decenni, la Stasi governò col terrore. Chi non ci stava, i dissidenti, veniva spesso decapitato con le vecchie ghigliottine con cui la Gestapo di Hitler assassinò i fratelli Scholl e tutti gli altri resistenti tedeschi. Esecuzioni illegali, alle famiglie lo Stato-galera annunciava ‘decessi per infarto’. La posta veniva sempre aperta, ogni marco o bene pregiato inviato in regalo dai parenti dell’Ovest rubato dalla Stasi che aveva persino macchine costruite apposta per aprire lettere o pacchi e richiuderli senza far apparire nulla”. Guardate un film come Le vite degli altri e avrete un ritratto eloquente di quanto fu tetro, subdolamente asfissiante ed efficacemente oppressivo il regime della Repubblica democratica tedesca. Come ha scritto Indelicato, con il crollo della DDR cadevano anche le tre menzogne proclamate da quelle tre parole che componevano la sigla del regime comunista tedesco orientale. “Non era un repubblica ma una tirannide; non era democratica ma piuttosto la negazione assoluta della democrazia; e se la popolazione era indubbiamente germanica, i suoi dirigenti ed il regime stesso vissero nella negazione di tutto ciò che, nel bene e nel male, era tedesco”.
Oggi, a fronte della propensione egemonica della Germania di Angela Merkel nel quadro dell’Unione Europea, un numero sempre più crescente di europei cominciano a far proprie le forti preoccupazioni che manifestarono subito pubblicamente due grandi protagonisti dell’epoca come François Mitterand e Margaret Thatcher. Entrambi vedevano con timore e sospetto la riunificazione politica e territoriale che già alla fine di quel 1989 Helmut Kohl, cancelliere della Germania occidentale (Repubblica federale tedesca), prospettò come conseguenza logica e quasi ineluttabile. Inoltre, a ventiquattro anni dalla riunificazione (ufficialmente avvenuta il 3 ottobre 1990), i problemi, le distanze e le differenze sociali ed economiche tra le due Germanie permangono, secondo non pochi osservatori. Ma si sono indubbiamente attenuate, e soprattutto, per prendere ancora a prestito le parole di Andrea Tarquini, dopo ventotto anni cadde allora, il 9 novembre del 1989, “la frontiera tra chi in Europa poteva scegliere e chi no” e, aggiungiamo noi, questa possibilità di scelta, in piena libertà, resta per tutti i cittadini, vecchi e nuovi, presenti e futuri, della Germania riunificata.
Ricordate la favola di Fedro del lupo e del cane? Morale della favola: meglio vivere poveri ma liberi, che ben pasciuti ma in cattività. Con l’esperimento comunista, tedesco orientale e non solo, saltò anche il binomio tra dittatura e benessere collettivo. Ulteriore morale, stavolta della storia: se proprio devo esser povero, tanto vale mantenere la propria libertà.
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