di Carlo Pulsoni
È tipico dei regimi costruire una storiografia di tipo teleologico in cui il passato viene riletto secondo gli intendimenti della realtà politica contemporanea. Se con il fascismo il recupero dell’antichità romana si rivela automatico, nel caso dei regimi comunisti dell’Est la vicenda si complica per la mancanza di un passato altrettanto glorioso, e diviene pertanto necessario ricorrere alla falsificazione della storia.
In un bel saggio intitolato Indagine su di una falsificazione storiografica nella Romania comunista, appena apparso nel volume 23 della «Transylvanian Review» («Categorie europee. Rappresentazioni storiche e letterarie del ‘politico’»), Gabriel Moisa ci informa su come avvenne questa operazione in Romania, e in particolare nei musei, costretti ad adattare la propria attività ai voleri del Partito comunista e del suo conducator Nicolaie Ceauşescu. Come rivela una direttiva del marzo 1985 «i musei e i loro lavoratori, in quanto istituzioni di scienza e di cultura, in quanto strumenti di formazione e di educazione politica, patriottica e rivoluzionaria, hanno il dovere di sfruttare appieno il ricco e prezioso patrimonio culturale in loro possesso, contribuendo con i loro mezzi specifici al grande lavoro svolto dal Partito comunista per la formazione dell’uomo nuovo».
Di poco successivo è il programma quadro dove sono esposte perentorie indicazioni su come devono essere ristrutturati i musei: in sostanza essi devono destinare il 27% dei loro spazi a tutta la storia della Romania, e il restante 73% al periodo contemporaneo, vale a dire dall’ascesa al potere del Partito comunista in poi. I momenti topici della storia patria vengono inoltre “riletti” in maniera originale: i Daci, a esempio, non paiono sconfitti dall’Impero romano, visto che questa conquista era considerata come un evento negativo.
Per quanto riguarda il Novecento, Ceauşescu deve apparire come protagonista dei destini del popolo rumeno fin dalla sua adolescenza. A questo scopo, si arriva persino a truccare una fotografia, incollando la sua testa sul corpo di uno dei dimostranti della grande manifestazione antifascista e antibellica del primo maggio 1939. Il resto delle sale museali devono illustrare l’epoca del conducator, il suo rapporto simbiotico col popolo, lo sviluppo industriale dell’ultimo ventennio, l’aumento del benessere e la straordinaria diffusione dell’istruzione e della cultura. Tutto deve contribuire a mostrare l’entusiasmo e la felicità della nazione. Sensazione ancora più surreale se si considera il drammatico periodo che stava vivendo la Romania alla metà degli anni Ottanta. Una vicenda paradigmatica sull’uso della storia da parte dei regimi che deve farci riflettere sulla facilità con cui la falsificazione degli eventi può diventare a volte anche nel nostro Occidente una vulgata.
A proposito di Ceauşescu, ricordiamo come il dittatore rumeno fosse riuscito a costruirsi anche in Occidente un’immagine estremamente positiva, da riformatore non allineato, che contrastava tragicamente con la realtà interna della Romania, sottoposta ad uno dei più duri regimi totalitari dell’Est europeo. A quell’immagine truccata, molti anche in Italia, e non solo a sinistra, ci credettero. La recente storiografia romena si è assunta il compito non facile, ma necessario, di riscrivere, sui documenti, la storia di queste falsificazioni, che spesso hanno riguardato, tra equivoci e abbagli ideologici, anche la nostra parte d’Europa.
* Articolo apparso su Treccani.it
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