di Danilo Breschi
Sulle colonne del “Corriere della Sera” del 20 novembre scorso, Ernesto Galli della Loggia ha firmato un editoriale sulle “Tante speranze (quasi) tradite”. L’occhiello recitava: “Una democrazia da rifondare”. Il riferimento principale dell’articolo è al caso italiano, ma l’editorialista intende fare un discorso più ampio sullo stato generale delle democrazie europee ed occidentali. Galli della Loggia parla infatti di “una nuova fase storica che per la democrazia ha il valore di una sfida”. Questa fase vede la politica democratica contrassegnata dal dilagare di “riti un po’ stucchevoli, di discussioni pompose che preludono di regola a compromessi al ribasso realizzati da figure perlopiù mediocri”, e cita il caso della scialba figura del nuovo presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker. Elenca poi altri tratti distintivi di questa fase storica delle democrazie: “il mito della continua crescita economica non è più che un mito; il lavoro sta cessando di avere un valore coesivo tra individui e strati sociali; aumenta sempre più il divario tra chi ha e chi non ha”, e infine c’è la secolarizzazione “che aggredisce alla radice l’intero mondo valoriale e simbolico dei tradizionali rapporti tra gli individui (dalla parentela alla genitorialità)”. In conclusione: “improvvisamente la democrazia si è trovata davanti a un ospite inatteso: la povertà in crescita”. Ecco il tema da discutere. Proviamo almeno ad abbordarlo nei suoi contorni.
Prima della teoria, qui più che mai è il caso di partire dalla storia. Parlo della storia della democrazia, delle democrazie, al plurale, così come queste si sono affermate e consolidate nella realtà, fino a diventare sistemi non solo funzionati, ma anche efficaci ed efficienti quanto basta per catturare un consenso crescente tra le popolazioni che ne facevano parte. Cosicché negli ultimi settant’anni non abbiamo assistito in Europa a quanto accadde al primo germoglio di democrazie, circa cent’anni fa, all’indomani della prima guerra mondiale. Vedasi il caso, esemplare, della Repubblica di Weimar. La stessa teoria ha sostanzialmente avallato cosa le insegnava la pratica, l’esperienza vissuta: la democrazia si afferma e si consolida là dove c’è sviluppo economico, e infine benessere. Ma la teoria ha poi rovesciato la relazione, sostenendo che là dove vi è democrazia, e solo là oppure là più che altrove, può darsi sviluppo economico, sociale, insomma il benessere, secondo tempi e ritmi impensabili per altre tipologie di regimi. Finché è durata la Guerra Fredda e l’antagonista delle democrazie europee ed occidentali era un blocco di Stati a partito unico, dunque dittature più o meno totalitarie, comunque autocrazie, alimentate da economie pianificate e dirette da quello stesso partito-Stato, il binomio “democrazia-crescita economica” pareva incontestabile. Poi, la svolta è probabilmente avvenuta con la Cina negli anni Ottanta e Novanta, frutto anche delle scelte strategiche di Deng Xiaoping avviate già a fine anni Settanta. Si è coniugato quel che pareva non coniugabile dopo il fallimento dell’impero sovietico: dittatura totalitaria e sviluppo economico.
Già il periodo tra le due guerre aveva presentato un tentativo in tal senso, ma la Germania hitleriana dimostrò infine come il totalitarismo si nutrisse di un’ideologia trainante, oltre che totalizzante, e come questa non potesse non piegare l’economia, pur capitalistica, in direzione dell’industria pesante e della produzione bellica. Lo sviluppo in vista della guerra, insomma, quella stessa guerra che decretò la fine dello sviluppo tedesco, e soprattutto del benessere della sua popolazione. Certo, una vittoria bellica nazista avrebbe forse potuto affermare l’equivalenza dittatura totalitaria uguale crescita e benessere economico, ma la vittoria degli Stati Uniti affermò invece nel 1945 l’equivalenza contraria: democrazia rappresentativa uguale crescita e benessere economico (anche se la guerra, ossia lo sforzo bellico, aiutò non poco gli Usa ad uscire dalla grande crisi degli anni Trenta…). Insomma, è stata la Cina comunista di questi ultimi trent’anni che, nonostante Tienanmen, direi confermata proprio da Tienanmen, ha prospettato una nuova formula vincente: l’economia di mercato si attua anche nel socialismo, inteso come sistema che prevede la pianificazione. Il capitalismo si può, anzi si deve, pianificare e sottoporre ad un rigido controllo dello Stato, anzi del partito-Stato. Estrema verticalizzazione e gerarchizzazione del processo decisionale, riduzione a zero di ogni dimensione “discutidora” (dalla cui deriva, scrive Galli della Loggia, la democrazia – italiana, in primis – è stata trascinata e travolta), e dunque nessuna condivisione “popolare” o richiesta di legittimazione “dal basso”, secondo riti e procedure propri dei sistemi rappresentativi, liberali, costituzionali, democratici. Altro che economia sociale di mercato, modello invocato quale fiore all’occhiello delle politiche economiche dell’Unione Europea! Piuttosto, si sta affermando vincente un’economia socialista di mercato. Certo, a prezzo di soppressione delle libertà e di violenze di Stato, che proprio i venticinque anni di silenzio dopo i moti di piazza Tienanmen ci confermano come ancora perpetrate quotidianamente e ferocemente nella Repubblica popolare cinese.
Dall’editoriale di Galli della Loggia si solleva dunque questo grande tema, che va ben oltre le considerazioni minime con le quali invece si conclude. Ossia il dubbio amletico se Matteo Renzi sarà o meno il leader capace di operare per l’Italia “una tale opera di rifondazione”, rivitalizzando una democrazia in crisi di identità, di rendimento, e dunque di consensi. Al di là delle effettive qualità personali, che come dice Galli della Loggia sono ancora tutte da vedere, il presidente del Consiglio di oggi, ossia Matteo Renzi, non è per niente diverso da quelli precedenti (a ritroso: Letta, Monti, Berlusconi, Prodi, ecc., ecc.), nel senso che è sempre un presidente del Consiglio (si smetta di chiamarlo “premier” che è il nome del capo del governo inglese, con ben altri poteri e altre istituzioni di contorno!). Voglio dire: un presidente del Consiglio secondo la vigente Costituzione italiana. Insomma: è come se si fosse chiesto a Perseo di sconfiggere la Medusa, dallo sguardo pietrificante, senza lo scudo a specchio di Atena, l’elmo di Ade, la sacca magica e quel falcetto di diamante affilatissimo, dono di Mercurio. Al massimo Renzi possiede i sandali alati, che per tagliare la testa alla Gorgone sono importanti ma non essenziali. E rafforzare l’esecutivo e stabilizzare e fluidificare il processo decisionale non vuol certo dire trasformare la nostra democrazia in una pallida remota imitazione della dittatura cinese, o di altra monocrazia a giro per il mondo. Non scherziamo! Altrimenti dovremmo ritirare la patente di democrazia a Stati Uniti e Gran Bretagna, solo per dire due Paesi retti da sistemi con esecutivi forti (non illimitati).
In secondo luogo, al di là del riferimento al caso italiano – un caso tutto particolare di “crisi nella democrazia” -, non è certo un leader, per quanto carismatico o “vero”, come dice Galli della Loggia, che può addirittura “rifondare” una democrazia in crisi. Di quella crisi di cui parla l’editorialista del “Corriere della Sera”. Una crisi di identità perché, almeno in Europa, in quella continentale soprattutto, non sembra più poter valere l’equipollenza tra democrazia e benessere economico e sociale diffuso. Insomma, l’impressione è che la democrazia abbia attecchito nell’Europa occidentale post-1945 grazie al Piano Marshall e alla necessaria immane opera di “Ricostruzione”. Nonché figlia di una potente reazione psicologica alle macerie di trent’anni di guerre e figlia di quella voglia popolare – e anche delle élites dell’epoca, nuove o superstiti – di non rivedere più tante e tali macerie. In tal senso, e detto per inciso, una memoria storica non farebbe male né ai popoli né alle élites di questa Europa che stenta a trovare vera unità.
La cronica stanchezza, rasente l’astenia, di cui soffrono molte democrazie contemporanee deriva dal logoramento di quei meccanismi e soprattutto dall’esaurimento di quelle risorse con cui esse hanno sollecitato e appagato le aspettative dei propri cittadini dal 1945 ad oggi. Le speranze di cui parla il titolo dell’editoriale di Galli della Loggia non sono solo e tanto quelle residuali suscitate dal giovane Renzi, apparso come leader entusiasta e volitivo (dunque “decisivo” e “risolutivo” della crisi italiana?), quanto quelle di intere generazioni di cittadini europei occidentali che dagli anni Sessanta in poi hanno preteso lavoro e benessere, economico, sociale e talora anche psichico, da uno Stato a cui rimettevano gran parte di quelle responsabilità e di quei compiti che nessuna buona cittadinanza democratica dovrebbe mai concedere. Tasse su tasse in cambio di servizi pubblici, in modo da affermare la logica secondo cui se pago, specie se pago tanto, poi mi attendo che lo Stato mi supplisca in tutto e per tutto. Ma qui scatta una deriva della delega che, perpetratasi per decenni, e in Italia più che altrove, fa oggi gridare molti alla degenerazione oligarchica. In qualche misura la logica della delega è intrinseca alla storia dello Stato nazionale moderno e la creazione del welfare l’ha richiesta e ulteriormente rafforzata. L’Unione Europea avrebbe dovuto sciogliere alcuni nodi della sovranità nazionale anche per favorire un recupero dei livelli intermedi e locali di esercizio del potere. Qualcuno ricorda il principio di sussidiarietà, tanto di moda nei primi anni Duemila? Ma questo, come tanti altri bei principi della teoria politica, si avvera solo passando dalla “politica” al “politico”, passaggio evocato anche da Galli della Loggia. Io l’intendo così: abituarsi al fatto che, se voglio che la cosa sia “pubblica”, debbo comportarmi ed agire di conseguenza, facendomi “pubblico” anch’io. Sia come guardiano dello Stato-guardiano, sia come guardiano che si fa Stato nel microcosmo delle prime comunità che incontro subito dopo la famiglia. È faticoso, ma cura l’astenia della democrazia. Rileggere Tocqueville.
Commenti (2)
Yoshi
Dà sollievo leggere un editoriale scevro dall’adorazione per la tirannide, la quale affligge con fisiologica regolarità gli intellettuali proprio dell’Occidente tramontante insieme alla sua bandiera, la democrazia.
Che non ci si potrà fare nulla, e la Storia non si arresta, assumo che lo sappia Lei non meno di quanto lo so io.
Danilo Breschi
Grazie “Yoshi”.
Cordialmente,
DB