di Alessandro Campi

imagesCADJ0OANQuanto accaduto a Parigi, superato lo sdegno e messe da parte le emozioni, suggerisce non poche riflessioni. Che per essere minimante efficaci o utili non solo debbono spingersi oltre le paure e le strumentalizzazioni del momento, ma debbono anche rinunciare a presentarsi come rassicuranti o come allineate alle vedute dominanti.

Viene subito da interrogarsi, ad esempio, sull’eccezionalità storica della democrazia, la cui affermazione su scala universale è ben lontana dall’essersi realizzata (secondo certe recenti e troppo ottimistiche previsioni). Essa rappresenta il vero bersaglio – simbolico prima che politico – dell’offensiva proveniente dal terrorismo islamista. Si tratta di un tipo di regime, visto dall’esterno, paradossale: non solo il suo dogma è di non averne nessuno, ma il suo dovere morale è di proteggere anche coloro che lo criticano, senza considerare il rispetto che in esso la maggioranza sempre deve alle minoranze.

Tra le responsabilità della democrazia la più eccentrica consiste nel garantire libertà d’espressione anche a chi, abusandone al di fuori di qualunque regola o limite, sconfina nella blasfemia con la scusa dell’irriverenza: esattamente il caso dei vignettisti di “Charlie Hebdo”, la cui vena libertaria sempre più spesso si confondeva ormai con l’oltraggio e l’offesa, soprattutto nei confronti di tutte le confessioni religiose. La tolleranza verso chi, per dimostrarsi libero da ogni ortodossia o convenzione, ti offende e mette alla berlina ciò in cui credi, è uno sforzo difficile da spiegare a chi non abbia introiettato il valore della libertà come costitutivo dell’ordine sociale nel quale si vive. Ma questo sforzo è esattamente ciò che fa la differenza tra il pluralismo liberale e l’autocrazia.

Il primo è una conquista fragile e tutto sommato recente, il secondo una minaccia politica ricorrente. In democrazia – per quanto radicale possa essere la diversità di opinioni e sensibilità – si dissente, ci si indigna e si protesta, non si uccide. Ci sono però parti del mondo, culture e ideologie che ancora ritengono questa posizione più un segno di debolezza che un progresso civile. Farlo notare è un modo subdolo e offensivo per rivendicare la propria superiorità morale su chi semplicemente la pensa in modo diverso, secondo i precetti del relativismo culturale, o serve a fotografare una sgradevole realtà con la quale dobbiamo fare i conti?

Ma dopo l’attentato costato la vita a dodici persone non ci si può non interrogare anche sulle scelte politiche che sono state fatte sinora in materia di immigrazione. Un fenomeno che non si può fermare, come spesso si sostiene, ma che se non governato presenta in prospettiva rischi enormi. Non tanto quello di una crescente islamizzazione delle nostre società, sul piano politico e del costume, secondo quanto preconizzato nel suo ultimo romanzo da Michel Houellebecq, quanto quello di una conflittualità civile sempre più intensa all’interno degli Stati europei che ospitano grandi comunità di immigrati.

Il problema è che i modelli sin qui perseguiti, per assorbire gli immigrati all’interno degli Stati-nazione europei nati storicamente sulla formula “un popolo, una tradizione, una lingua”, non hanno funzionato. La pacifica convivenza delle culture e delle appartenenze etnico-religiose, predicata dai teorici del multiculturalismo soprattutto in Gran Bretagna, come si è visto produce nella migliore delle ipotesi segregazione: una società di comunità chiuse che non si parlano e non si mescolano, che faticano persino a riconoscersi nello stesso sistema di regole e che fatalmente finiscono per confliggere.

L’integrazione all’interno di uno spazio pubblico-civile che esclude i valori religiosi, promuove l’individualismo e affida l’identità delle persone allo status legale di cittadinanza, secondo il modello repubblicano francese, ha invece prodotto una massa crescente di giovani frustrati e mossi dal rancore: socialmente e culturalmente ai margini della società nella quale spesso sono nati ma nei cui valori e costumi evidentemente non si riconoscono, nell’integralismo politico-religioso ispirato all’Islam costoro hanno trovato quel senso dell’appartenenza collettiva che un passaporto o un timbro evidentemente non può offrire.

La risposta a questo duplice fallimento, sostiene la maggioranza degli osservatori, non può essere quella del populismo di destra, che si limita a giocare sulla paura e ad invocare un’impossibile chiusura delle frontiere o, peggio, espulsioni di massa. Ma nemmeno le parole-totem care a una certa sinistra – dialogo, incontro, contaminazione, apertura al prossimo – sembrano ormai funzionare: un conto è tacitarsi la coscienza o farsi guidare da nobili sentimenti umanitari, un conto è chiudere gli occhi dinnanzi al disagio che sta montando nelle società europee a causa dell’immigrazione e che spesso proviene proprio dalle classi sociali più povere e marginali.

Se si vuole evitare un futuro di conflitti civili endemici forse bisognerà convincersi, prima o poi, di due verità elementari: non si può accogliere tutti per spirito di carità (la morale religiosa non coincide mai con le scelte della politica) e, soprattutto, non si può accogliere chi palesemente odia il tuo stile di vita ed è disposto a impugnare le armi per abbatterlo. La democrazia è tenuta a salvaguardare la libertà di pensiero di ogni singolo individuo, ma non le si può chiudere di suicidarsi arrivando a tollerare la violenza contro di sé.

C’è poi un’altra riflessione, tra le tante possibili, che la vicenda parigina suggerisce. Giustificare le violenze odierne del terrorismo islamista (come in passato si è fatto con le violenze dei movimenti d’indipendenza del Terzo mondo in lotta contro il colonialismo) gettando la colpa sull’Occidente o sulla rapacità del capitalismo è ormai solo una forma di autolesionismo politico-intellettuale. L’integralismo islamista, come oggi lo vediamo all’opera su scala globale, non nasce dalla povertà o dal senso di rivincita di popoli a lungo depredati dei loro beni e della loro libertà, ma da un disegno geopolitico di conquista, partorito da minoranze altamente istruite e politicizzate, che usa il sentimento religioso come giustificazione ideologica per le proprie azioni violente e come motore di consenso tra le masse. Questo disegno egemonico è indirizzato contro le democrazie liberali occidentali non meno che contro gran parte del mondo musulmano, all’interno del quale da anni si sta combattendo una vera e propria guerra civile transnazionale. E se una colpa, tutta politica, ha l’Occidente è semmai quella di essere intervenuto in questa guerra interna all’universo islamico scegliendosi spesso – dalla Libia alla Siria, dall’Iraq all’Egitto – gli alleati e gli interlocutori sbagliati. Quello che oggi stiamo pagando è anche i prezzo di questi errori.

Un’ultima questione. Ci si chiede con insistenza, dopo l’attento parigino, con quali tecniche sia preferibile combattere il terrorismo islamista, che ormai ha dimostrato di poter colpire ovunque nei Paesi occidentali, ricorrendo alle bombe come ad azioni di guerriglia urbana. Se arrivando a stanare capi e militanti jihadisti nei loro rifugi in ogni parte del mondo, facendo loro una guerra aperta e senza tregua; o attraverso operazioni di intelligence condotte ricorrendo ad infiltrazioni nei loro ranghi, a omicidi mirati e ad azioni di controspionaggio.  Ma forse la domanda giusta, a questo punto, è un’altra: chi deve combattere il terrorismo avendo più possibilità di sconfiggerlo?

L’impressione, infatti, è che i Paesi europeo-occidentali possano sì contrastare il disegno politico-espansionistico che usa la violenza più brutale (e più spettacolare) avendo come fine ideologico dichiarato la restaurazione del califfato islamico, la conversione degli infedeli (in particolare cristiani) e la conquista dei loro territori. Ma non siano nelle condizioni di sradicarlo dal punto di vista militare e, soprattutto, sul piano simbolico-culturale.

Un compito tanto gravoso e difficile sembrerebbe piuttosto gravare sulle spalle dello stesso mondo islamico, che di questo disegno è vittima e obiettivo non meno che dei Paesi europeo-occidentali. Non bisogna infatti dimenticare che la violenza  jihadista si rivolge ormai da anni, in modo indiscriminato, contro gli stessi musulmani: quelli d’osservanza sciita, a conferma che è in corso una guerra civile di religione che storicamente richiama quella (non meno violenta) che per mezzo secolo oppose in Europa cattolici e protestanti, ma anche contro quelli d’osservanza sunnita che si trovano a vivere sotto governi ostili o semplicemente critici nei confronti dell’integralismo e dei suoi mezzi.

Il socialismo nazionalista arabo è stato, per alcuni decenni, la formula politica che – sotto il giogo di dittature di stampo militare – ha tenuto a freno tutte quelle tendenze o fazioni religiose che proponevano una lettura ortodossa dell’Islam e proponevano di organizzare la società secondo i precetti contenuti nel Corano. Ma quella formula è stata alla fine sconfitta, più che dalla richiesta di libertà proveniente dalle masse (le cosiddette “primavere arabe” sono state in larga parte un equivoco storico), dall’insopportabile livello di corruzione e incompetenza politica di cui hanno dato prova coloro che nei diversi Paesi se ne sono fatti interpreti, finendo per instaurare quasi ovunque della satrapie famigliari.

Per sconfiggere l’integralismo si fa oggi affidamento sull’Islam cosiddetto moderato, che non vuole dire democratico o liberale, ma semplicemente un Islam, come aveva ben indicato Benedetto XVI nel suo contestatissimo discorso a Ratisbona, che da un lato rinuncia ad utilizzare la violenza e la minaccia come strumento di affermazione della fede e dall’altro evita di piegare il credo religioso a finalità politiche, finendo per farne un’ideologia terrena ovvero una forma perversa di religiosità. Solo l’Islam della tradizione e della ragione, per dirla ancora con Ratzinger, può fermare e sconfiggere l’Islam fanatico e sanguinario.

* L’articolo riprende i due articoli dell’Autore apparsi sul “Messagero” (Roma) e sul “Mattino” (Napoli) del 9 gennaio 2015

 

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