di Danilo Breschi
Prendo le mosse da un brano di Václav Havel, tratto dal suo “Il potere dei senza potere” (tr. it. La Casa di Matriona-Itaca, 2013, pp. 37-38) un testo scritto nel 1978 quando il blocco sovietico era ben saldo nel suo dominio totalitario e Havel un “dissidente” tenuto sotto stretto controllo dalla polizia. Leggiamo:
“Il direttore del negozio di verdura ha messo in vetrina, fra le cipolle e le carote, lo slogan: “Proletari di tutto il mondo unitevi!”.
Perché l’ha fatto? Cosa voleva far sapere al mondo? È davvero personalmente entusiasmato dall’idea dell’unione fra i proletari di tutto il mondo? Questo entusiasmo è così forte che sente il bisogno irrefrenabile di comunicare all’opinione pubblica il suo ideale? Ha riflettuto, almeno per un istante, sul modo in cui questa unione dovrebbe realizzarsi e cosa significherebbe?
Io penso che per la stragrande maggioranza degli ortolani si possa supporre che in fin dei conti non riflettano sul testo degli slogan esposti nelle loro vetrine e tanto meno che con essi vogliano esprimersi sulla loro visione del mondo.
Lo slogan è stato consegnato al nostro ortolano dall’azienda insieme alle cipolle e alle carote, e lui l’ha messo in vetrina perché sono anni che lo fa, perché lo fanno tutti, perché si deve fare così. Se non lo facesse potrebbe avere delle grane […]. Lo ha fatto perché questo gesto gli permette di riuscire a campare; perché è una di quelle mille “piccolezze” che gli garantiscono una vita relativamente tranquilla “in sintonia con la società”.
Come si può notare, il contenuto semantico dello slogan esposto è indifferente all’ortolano e, se lo espone in vetrina, non lo fa certo perché arde dal desiderio di far conoscere il suo pensiero all’opinione pubblica. Questo non significa che il suo gesto non abbia né motivazione né significato e che lo slogan non dica niente a nessuno. Lo slogan ha la funzione di segnale e come tale contiene un messaggio preciso anche se nascosto. A parole suonerebbe così: io, ortolano X Y, sono qui e so che cosa devo fare; mi comporto come ci si aspetta che faccia; di me ci si può fidare e non mi si può rimproverare di nulla; io sono ubbidiente e ho quindi diritto a una vita tranquilla. Questo messaggio naturalmente ha il suo destinatario, mira in alto, ai superiori dell’ortolano, al tempo stesso gli serve da scudo per difendersi da eventuali delatori.
[…] Riflettiamo: se gli ordinassero di esporre lo slogan: “Ho paura e per questo obbedisco senza fiatare”, non sarebbe così remissivo nei confronti del contenuto semantico del messaggio, anche se questa volta coinciderebbe perfettamente con il significato nascosto dello slogan. Verosimilmente l’ortolano rifiuterebbe di esporre nella propria vetrina un’indicazione così esplicita della sua umiliazione, si sentirebbe mortificato, si vergognerebbe. È comprensibile: è pur sempre un uomo e quindi ha il senso della propria dignità.
Per superare questa complicazione, la sua professione di lealtà deve acquistare la forma di un segnale che, almeno nell’apparenza del testo, rimanda al livello superiore che esprime una convinzione disinteressata. […] Il segnale, quindi, aiuta a nascondere all’uomo i fondamenti infimi della sua obbedienza e quindi anche i fondamenti infimi del potere. Li cela dietro la facciata di qualcosa di elevato.
Questo qualcosa di elevato è l’ideologia come modo apparente di rapportarsi al mondo, che dà all’uomo l’illusione di avere un’identità, una dignità e una moralità, e così gli rende più facile non averle; l’ideologia come imitazione di qualcosa di “sovrapersonale” e di disinteressato che gli permette di ingannare la propria coscienza e mascherare davanti al mondo e davanti a se stesso la sua condizione reale e il suo inglorioso modus vivendi”.
Ebbene, Havel scriveva queste riflessioni dopo aver già subìto diversi fermi e interrogatori, nonché la condanna a 14 mesi con la condizionale a tre anni per “sovversione” e “danneggiamento degli interessi della repubblica all’estero”, inflittagli per aver contribuito alla nascita del movimento Charta 77 per i diritti civili e averne diffuso il documento programmatico. Il 27 aprile 1978 si sarebbe poi affiancato a Charta il neonato Comitato degli ingiustamente perseguitati (VONS), sorto per aiutare giuridicamente e materialmente le vittime della repressione e le loro famiglie.
Ebbene, sostituiamo le parole “proletari di tutto il mondo unitevi” con “Allahu Akbar” e l’ideologia del comunismo sovietico o “socialismo reale” con l’ideologia dell’islamismo radicale e jihadista. Sostituendo i termini il prodotto non cambia. Abbiamo dunque la prefigurazione di un totalitarismo traslato. Si pensi allo Stato islamico (IS), termine-concetto che è un ideale oltre che uno stato reale e, a seconda del territorio di riferimento, l’acronimo diventa ISIS se si considerano i territori di Siria ed Iraq, o ISIL, se si considerano i territori iracheni e di Al-Sham (antica denominazione di Damasco e dei territori circostanti).
“Traslato”, letteralmente: trasferito, trasportato. In altro contesto, religioso (anche se di una religione fortemente politicizzata), e in altra area del pianeta, l’Africa, il Medio Oriente, il subcontinente indiano, in parte anche l’Indonesia. L’ortolano potrebbe essere del nordest della Nigeria, di Falluja o di Peshawar. Lo stato di polizia, il medesimo per struttura ed effetti sulla dignità umana. Distrutta. L’uomo di fede si sottomette a Dio, non a chi se ne arroga la rappresentanza. Così dovrebbe essere.
Un’ultima domanda: siamo proprio sicuri che siamo noi la civiltà malata? Oppure l’integralismo islamico e la deriva jihadista e terroristica non sono forse il sintomo di una grave crisi che sta attraversando il mondo musulmano? Il più recente, tremendo massacro compiuto dal gruppo di miliziani integralisti denominato Boko Haram (che letteralmente significa “l’educazione occidentale è peccato”) ha mietuto qualcosa come 2000 vittime tra gli abitanti della città di Baqa, nel nordest della Nigeria. Città che, secondo fonti della Bbc, sarebbe stata completamente devastata, con le case date alle fiamme. Di fatto non esiste più. Musulmani che uccidono altri musulmani in nome dello stesso Dio, però diversamente interpretato. Si uccidono tutti coloro che non si sottomettono. Una sorta di neocolonialismo, stavolta contro l’Occidente. È per questo che c’è chi esulta sotto i baffi: sono i nostalgici del fascismo, del nazismo o del comunismo. Di coloro che hanno perso la guerra contro la democrazia liberale, laica, borghese e costituzionale, ma continuano ad odiarla e così tifano per i nuovi distruttori. Il loro ragionamento, questo sì irrimediabilmente nichilista, molto più di quello che addebitano all’Occidente in cui sono nati e cresciuti, un’Occidente senz’altro relativista ma non ancora suicida, è il seguente: “muoia Sansone e tutti i filistei!”. Se il nazismo e il comunismo hanno fallito, tanto vale che vada in fiamme l’intera Europa, con l’aggiunta di quell’America che ha contribuito in modo decisivo alla disfatta di entrambi. Le fiamme dell’inferno jihadista, vendicatore di nazisti e comunisti e magari anche di qualche frustrato e depresso dal materialismo consumista dell’Occidente capitalista. Qui si annida il collaborazionismo europeo-occidentale all’integralismo islamista. Ma non c’inganniamo: una Parigi “decadente” non sarà mai così decaduta come una qualsiasi città che finisca sottomessa al dominio di talebani o quaedisti o miliziani dell’ISIS. La crisi si origina e si alimenta in casa musulmana, dove da anni divampa una guerra civile che va dalla Nigeria al Pakistan. Le guerre occidentali in Afghanistan e Iraq hanno finito per fare il gioco dell’integralismo e ingrossato le file della Jihad, è indubbio, anche per i tempi e i modi del disimpegno bellico obamiano, ma le prime e ultime vittime dell’islamismo radicale e sanguinario sono e saranno sempre i popoli di fede musulmana. Non saranno certo Al Qaeda o l’Isis a cancellare o ridurre povertà e oppressione tra quei popoli e in quelle terre. Il loro obiettivo è un regime di sottomissione totale non dissimile da quello contro cui insorsero di dissidenti come Václav Havel.
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