di Damiano Palano
Nel febbraio 2013 il governatore della Banca centrale europea, commentando i risultati delle elezioni italiane, spiegò ai giornalisti che i timori su eventuali reazioni dei mercati all’instabilità politica non dovevano essere esagerati. «I mercati», disse in quell’occasione Draghi, «capiscono che viviamo in democrazia», ma sottolineò anche che essi avevano perfettamente compreso la portata delle misure varate dopo la tempesta del 2011. «I mercati», precisò infatti, «sanno che le misure di aggiustamento finanziarie sono già attive in Italia» e che «continueranno a operare con il pilota automatico». Molto più efficacemente di tanti saggi, l’immagine brutale che Draghi delineò in quell’occasione chiarisce il significato che i vincoli europei hanno per le democrazie del Vecchio continente (e soprattutto per l’area meridionale del’eurozona). Ed è in fondo contro questa immagine dell’Europa che si dirige La sovranità assente (Einaudi, pp. 74, euro 10.00), il nuovo pamphlet di un’intellettuale europeista come Barbara Spinelli, di recente approdata a Strasburgo (non senza una lunga coda polemica) come parlamentare della lista Lista Tsipras.
Il volumetto – che raccoglie i testi di tre lezioni magistrali tenute recentemente – si propone infatti di difendere la causa dell’Europa unita non solo dagli attacchi che provengono dai diversi ‘euroscettici’ (di destra e di sinistra), ma anche da quella visione fissata in termini paradigmatici dalle parole di Draghi, secondo cui l’Ue è di fatto chiamata a ‘sterilizzare’ la democrazia, per impedire che gli elettorati e le classi politiche nazionali assumano decisioni contrarie agli interessi dei «mercati». E la tesi che emerge dalle pagine di Spinelli è soprattutto volta a smantellare quei luoghi comuni della retorica antieuropeista, che dipinge i singoli governi nazionali come vittime dell’«eurocrazia» di Bruxelles o della Germania di Angela Merkel. In realtà – e qui Spinelli ha ovviamente buon gioco nel condurre la polemica – le cose stanno molto diversamente, perché i governi non possono considerarsi irresponsabili per quanto riguarda le decisioni assunte nel corso della crisi: «Tronfiamente, e pavidamente, i governi tuonano contro gli eurocrati che starebbero distruggendo il sogno europeo. Ma è una scusa per nascondere le proprie responsabilità. La troika che per anni ha vessato la Grecia, Cipro, il Portogallo, l’Irlanda, e che è composta dalla Commissione, dalla Banca centrale europea, dal Fondo monetario internazionale, è una loro creazione. Così dicasi del Fiscal compact, frutto di un accordo intergovernativo che sarà sottoposto al controllo parlamentare europeo solo il giorno in cui entrerà nella legislazione comunitaria. Sono gli Stati ad aver deciso di rispondere alla crisi scoppiata nel 2007-2008 uccidendo la vocazione solidale dell’Unione, ignorando le ragioni per cui nacque (la lotta ai nazionalismi e alla povertà), opponendo i paesi del centro alle sue nuove ‘periferie’» (pp. IX-X).
Naturalmente Spinelli non può trascurare il peso che nella crisi odierna ha avuto il «difetto di costituzione della moneta unica» (p. 12), una moneta che poteva funzionare solo se sorretta da un’adeguata unione politica, rimasta invece solo un vago auspicio. Ma anche in questo caso sostiene che la responsabilità di una simile lacuna debba essere attribuita proprio ai governi dei singoli Stati, che hanno fino a questo momento impedito l’emergere di un’Europa politica, agitando lo spettro di un «Superstato europeo». E da questo vizio genetico deriverebbero dunque tutte quelle malattie che abbiamo imparato a conoscere bene: l’assunzione da parte della Germania di un ruolo di controllore del rigore economico; il ritorno alla vecchia logica dell’equilibrio di potenza; la liquidazione come pernicioso «populismo» della protesta contro le politiche di austerità. «Se l’Europa oggi non funziona, se non è più una comunità ma un’accozzaglia di discordie», nota d’altronde l’autrice, «non è per le ragioni solitamente elencate», e dunque «perché i suoi cittadini siano particolarmente scettici», o «perché manchi un démos, un’identità che non chiamiamo più razza, ma che ricorda molto da vicino l’argomento razziale», o «perché a Bruxelles regni una casta tecnocratica». La spiegazione va ritrovata invece altrove: «è perché gli Stati-nazione, e le loro forze politiche, millantano una sovranità ancora esercitabile alla vecchia maniera, e questa favola la raccontiamo e se la raccontano con tanto accanimento che sembrano persino crederci» (p. 67). Una simile resistenza, se da un lato si rivela incapace di mettere in atto un adeguato livello di controllo dei flussi economici globali, dall’altro non consente neppure che un simile controllo venga effettivamente garantito da Bruxelles. In altri termini, gli Stati «impediscono la nascita di un’Unione che diventi l’anello intermedio nella catena di dipendenza tra il potere sempre più soverchiante dei mercati e l’impotenza sempre più grande degli Stati: l’anello che restituisca loro la sovranità autentica di cui hanno bisogno vitale, per poter governare crisi che nessuno Stato può dominare ormai da solo, anche se si dotasse di Costituzioni autoritarie o richiudesse le frontiere» (p. 68).
Per volgere finalmente le spalle al «pilota automatico» – che «è il contrario della democrazia, perché tecnicamente può fare cilecca senza che nessuno ne risponda» (pp. 48-47) – l’intellettuale non può che tornare invece a quella visione di un’Europa democratica e solidale che dipingeva settant’anni fa il Manifesto di Ventotene, steso da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni nel pieno del conflitto mondiale. E la soluzione non può dunque non consistere in quella unione effettivamente politica che potrebbe consentire l’edificazione della vera sovranità europea, richiesta dalla realtà dei processi globali: «La globalizzazione ha rimpicciolito la sovranità dei più potenti, Stati Uniti compresi: è grottesco illudersi che non rimpicciolisca quella di mini-nazioni. È grottesca la battaglia dei No-euro, che non vedono come una moneta unica possa fungere da argine, se ben governata. Solo se l’Europa diventa lo spazio dove si organizza la politica e la discussione democratica – se diventa l’istituzione intermedia fra Stati e mondializzazione, fra cittadini e forze anonime che tolgono loro diritti e voce – ciascuna nazione potrà ridivenire compos sui. Altro che Europa light, senza più regole. Di un’Europa pesante c’è bisogno, e di regole stringenti, ma radicalmente nuove» (p. 69).
L’intento che indirizza il pamphlet non può che apparire in larga parte condivisibile, soprattutto nel momento in cui evoca gli ideali di un’Europa federale e solidale contro l’Europa del rigore e dell’austerità. A dispetto di questi meriti, è però piuttosto difficile non cogliere nel ragionamento di Spinelli alcune lacune che possono essere colmate solo con una dose di ottimismo che rischia di diventare scarsamente realistica. Una prima perplessità emerge per esempio a proposito del ragionamento con cui Spinelli imputa agli Stati sovrani lo stallo in cui si trova oggi l’Ue e con cui argomenta invece la necessità di un’Europa solidale, oltre che sovrana. Anche se infatti è molto probabile che solo un’Europa solidale potrebbe rimuovere quella sorta di blocco che contrassegna oggi la vita dell’edificio comunitario, è altrettanto chiaro che questa via risulta sbarrata – e probabilmente preclusa – da un intreccio istituzionale che molto difficilmente potrà essere rimosso, almeno senza l’intervento di fattori ‘eccezionali’. Come ha scritto in questo senso Claus Offe, in alcune lucidissime pagine: «ciò che sarebbe necessario fare con urgenza è estremamente impopolare e di conseguenza praticamente impossibile in un contesto democratico. Ciò che si dovrebbe fare, e su cui tutti sono d’accordo ‘in linea di principio’ (ossia una mutualizzazione del debito su larga scala e a lungo termine, che porterebbe a massicce misure redistributive sia tra gli stati membri sia tra le classi sociali), non può essere ‘venduto’ agli elettori degli stati membri che finora sono stati meno colpiti dalla crisi rispetto a quelli della periferia. Nello stesso tempo, occorrerebbe una spinta rapida e sostenuta alla competitività dei paesi periferici, un adeguamento del loro costo del lavoro (inteso come rapporto tra salari reali e produttività del lavoro) che porterebbe al raggiungimento di un relativo equilibrio commerciale e a livelli sostenibili dei deficit di bilancio. Tutto ciò è considerato necessario, ma anche impossibile da realizzare senza compromettere irreparabilmente i sistemi politici democratici di questi paesi» (L’Europa in trappola. Riuscirà l’Ue a superare la crisi?, il Mulino, Bologna, 2014, pp. 20-21).
La strada verso un’Europa solidale – che oggi coinciderebbe in special modo con misure di mutualizzazione del debito degli Stati ‘sovrani’ – sarebbe dunque effettivamente vantaggiosa per tutti i membri dell’Ue, e probabilmente per la stessa Germania (la cui economia invece risente fortemente della contrazione dei consumi nell’eurozona). L’Europa solidale (e sovrana) prefigurata da Barbara Spinelli – sulla scorta della lezione europeista del padre Altiero – potrebbe così davvero consentire il superamento della frattura tra Nord e Sud del Vecchio continente, emersa soprattutto a partire dal 2011. Ciò nondimeno si tratta di una soluzione sostanzialmente impraticabile dal punto di vista politico, perché tanto al Nord quanto al Sud quell’ipotesi è destinata a scontrarsi contro opposizioni probabilmente non valicabili. Per perseguire questa strada occorrerebbe un sostegno politico che non può essere semplicemente offerto da argomentazioni di opportunità economica. Ed è qui che emerge la seconda perplessità sollevata dal discorso di Spinelli. L’intellettuale liquida infatti il ruolo delle ‘nazioni’, sia perché il discorso centrato sull’importanza delle identità nazionali richiama ambiguamente l’idea che sia indispensabile un fondamento etnico o addirittura ‘razziale’ per una comunità politica, sia perché la storia europea dimostra che le sovranità territoriali hanno sovente preceduto la nascita delle identità nazionali (e cioè, detto in altri termini, perché il nation-building è stato il prodotto dell’azione di uniformazione e standardizzazione culturale esercitata dagli Stati). Da questo punto di vista, i presupposti del ragionamento di Spinelli sono incontestabili: le nazioni sono effettivamente grandi «finzioni» politiche, «comunità immaginate», talvolta costruite con sofisticate operazioni di vera e propria «invenzione della tradizione». Ma il fatto che le nazioni siano «finzioni», e non poggino cioè su una solida base ‘materiale’, non significa che esse non siano anche ‘politicamente’ necessarie. Certo tutte le identità politiche sono il risultato della costruzione retorica di un «noi», contrapposto a un «loro» più o meno ostile e più o meno definito nei suoi contorni. Ma, a dispetto di questo carattere ‘artificiale’, un sentimento del «noi» costituisce il serbatoio a cui qualsiasi iniziativa politica deve necessariamente alimentarsi. E il problema del progetto di un’Europa sovrana, federale e solidale – cui sono protesi gli sforzi intellettuali di Barbara Spinelli – è proprio che esso non è in grado di alimentarsi a un serbatoio identitario sufficientemente forte da poter avviare una riforma radicale delle istituzioni comunitarie. Nell’Ue di oggi, infatti, scrive ancora lo stesso Offe, «la nozione di un ‘noi’ che definisca l’ambito della solidarietà non è consolidata come riferimento di un’identità condivisa» (L’Europa in trappola, cit., p. 44). E ciò vuol dire che viene a mancare il sostegno necessario per qualsiasi politica di solidarietà, anche perché i partiti oggi presenti sulla scena europea – e l’attuale composizione del Parlamento di Strasburgo ce ne fornisce una conferma piuttosto eloquente – non sembrano affatto capaci di superare le paure e le diffidenze nutrite dagli elettorati nazionali. Ma, se un simile riferimento identitario non esiste, l’evocazione di un’Europa sovrana, federale e solidale rischia di tramutarsi soltanto in un progetto velleitario, in uno scenario del tutto irrealistico.
Il discorso sviluppato da Sovranità sospesa solleva però anche un’ulteriore perplessità, forse ancora più rilevante. Spinelli tende infatti a considerare la crisi attuale dell’Ue come un risultato dell’involuzione determinatasi dopo il 2008, e dunque delle resistenze mostrate dagli Stati nazionali a partire da quel momento. A ben guardare, però, la storia del «pilota automatico» non inizia nel 2008 o nel 2011, ma molto prima. Tanto che potremmo chiederci se la deriva che oggi ci troviamo a sperimentare non fosse già scritta, più di vent’anni fa, nelle clausole del Trattato di Maastricht. Come ha osservato nitidamente Emidio Diodato in un suo libro recente dedicato alla politica estera italiana della «Seconda Repubblica», le conseguenze che avrebbe comportato l’entrata in vigore del Trattato furono in larga parte sottovalutate dalla classe politica del tempo, ma risultarono invece ben chiare quantomeno ad alcuni operatori: in particolare Guido Carli – che, come ministro del Tesoro dell’ultimo governo Andreotti partecipò ai negoziati che avrebbero condotto a Maastricht – vide infatti, nella fissazione dei famosi parametri e nella costruzione di severe procedure di controllo dei conti pubblici, la possibilità per avviare in Italia le riforme che riteneva necessarie per adeguare il paese alle esigenze dell’economia globale. In altre parole, l’Europa di Maastricht veniva a rappresentare per Carli quel nuovo «vincolo esterno» che avrebbe consentito di indirizzare l’Italia verso uno «Stato minimo», e così di superare le resistenze del mondo sindacale e della stessa classe politica, oltre che – più in generale – di una società ‘culturalmente’ ostile ai principi dell’economia di mercato. In questo senso l’ex governatore della Banca d’Italia coglieva senza dubbio nel segno, perché effettivamente la strada indicata da Maastricht ha ‘costretto’ l’Italia a rimuovere quelli che Carli considerava come gli ostacoli principali alla rivitalizzazione dello «spirito imprenditoriale» (e cioè lo Statuto dei lavoratori e la «rigidità della forza-lavoro»). Oggi naturalmente è ormai piuttosto evidente che le diverse riforme che, a partire dagli anni Novanta, hanno ‘modernizzato’ l’Italia non hanno aumentato la competitività dell’economia nazionale (e hanno invece probabilmente favorito quella lunga stagnazione di cui sperimentiamo quotidianamente gli effetti). Ma, al di là del processo che investe l’Italia, vale la pena chiedersi se l’intera costruzione europea, almeno nella forma che ha assunto negli anni Novanta, non portasse con sé, fin da Maastricht, il vizio genetico di una vocazione ‘post-democratica’, destinata a rendere impraticabile qualsiasi riforma volta a dare centralità politica al demos europeo. In altre parole, vale la pena chiedersi se l’Ue non sia stata congegnata a Maastricht – dalle stesse classi politiche nazionali – come un grande meccanismo capace di ‘sterilizzare’ le democrazie degli Stati membri, come uno strumento volto a ‘de-politicizzare’ alcune decisioni cruciali, per sottrarre la capacità di interdizione agli elettorati nazionali, alle singole opinioni pubbliche, alle organizzazioni dei lavoratori, e dunque per ‘costringere’ persino le classi politiche più riluttanti ad adottare misure impopolari. Forse, osservato in questa prospettiva, «il pilota automatico» evocato da Draghi non appare allora come un’innovazione scaturita dalla crisi del 2011 o dal Fiscal compact, ma si profila invece come un elemento costitutivo di una formidabile struttura volta alla de-democratizzazione dei sistemi politici europei. Proprio perché si trovano a scontrarsi con un sistema finalizzato ‘strutturalmente’ a scavalcare la voce dei popoli europei e a neutralizzare le resistenze che provengono ‘dal basso’ dell’edificio, i progetti che si propongono di ‘democratizzare’ la macchina rischiano così di dipingere scenari in gran parte velleitari. Scenari che naturalmente –dovremmo ormai averlo compreso – non possono diventare più realistici e praticabili grazie al sostegno del ricordo degli orrori delle guerre del passato, o grazie a operazioni intellettuali più o meno raffinate che si limitano a evocare i vantaggi economici di un’Europa davvero «sovrana».
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