di Alessandro Campi
La vittoria in Grecia della sinistra radicale guidata da Alexīs Tsipras ha suscitato in Europa reazioni preoccupate, ma anche commenti assai positivi. Particolarmente entusiasta è stata la reazione di Marine Le Pen, leader del Fronte nazionale francese, che ha parlato di un risultato storico, destinato a cambiare in positivo il futuro politico del continente! Immaginate il segretario dei socialisti spagnoli che fa le feste per la vittoria dei conservatori in Gran Bretagna! C’è qualcosa che evidentemente non quadra nella scena politica del Vecchio Continente e nel comportamento dei suoi protagonisti: da quando la destra si compiace se vince la sinistra?
Ma ancora più straniante, anche per chi faccia professione del più cinico disincanto, deve essere stata la notizia – giunta ieri nelle redazioni talmente inaspettata da sembrare uno scherzo ben congegnato – che Tsipras il rivoluzionario avrebbe dato vita ad un nuovo governo insieme al conservatore Panos Kammenos. Gli mancavano due voti per assicurarsi la maggioranza assoluta nel Parlamento greco e diventare premier. E così ha scelto di accordarsi con i tredici eletti del partito dei Greci Indipendenti (Anel), una formazione di destra nazionalista nata nel 1993 da una scissione di Nuova Democrazia.
Viene da chiedersi se si tratta di un esercizio di puro pragmatismo, motivato dal desiderio di prendersi il potere passando sopra a qualunque differenza di colore politico, di una prova di responsabilità, per evitare al Paese lo spettro di nuove elezioni anticipate, o della dimostrazione che il sistema partitico-istituzionale greco è semplicemente impazzito sotto il peso di una devastante crisi socio-economica che dura ormai da troppi anni.
In realtà, questa sorta di grande coalizione ellenica nata nel segno dell’antieuropeismo e del rifiuto delle politiche di austerità perseguite da Bruxelles potrebbe anche suggerire che probabilmente sono in corso sulla scena storica profonde trasformazioni, che ancora fatichiamo a comprendere in tutta la loro portata.
Viene da dire, per cominciare, che sinistra e destra, nell’accezione storica e convenzionale, sono categorie che funzionano sempre meno per capire come si muove la politica, specie se si ritiene che esse riflettano un qualche contenuto oggettivo e assoluto: l’eguaglianza o il progresso la prima, la libertà o la tradizione la seconda. Forse hanno ragione quei pochi studiosi che le hanno sempre considerate dei semplici contenitori nei quali, secondo le contingenze della storia, è possibile travasare contenuti sempre diversi. In ogni caso si tratta di formule relative che poco ci dicono ormai sugli orientamenti reali degli elettori e sui fattori che ne determinano le scelte, specie nei momenti di grave crisi sociale.
Ma ciò che colpisce nell’esperimento del nuovo governo greco è soprattutto la convergenza tra orientamenti politici che dovrebbero naturalmente confliggere. In passato è già successo che destra estrema e sinistra estrema trovassero un punto di accordo ideologico nel comune rifiuto della democrazia e della tradizione dello Stato liberale. Ma non sembra il caso dei populismi odierni, di destra e di sinistra, che anzi rivendicano per sé stessi la difesa dei valori democratici contro le oligarchie nemiche del popolo, predicano la partecipazione e contestano la riduzione della politica alla dimensione tecnica. La convergenza che oggi si va profilando, come appunto dimostra la vicenda ateniese, riguarda un tema inedito: il disegno storico-istituzionale dell’Europa, che per decenni è stato patrimonio condiviso di tutte le forze politiche e che adesso sembra diventato il discrimine politico decisivo tra chi lo sostiene e chi lo avversa alla radice, con la destra e la sinistra che intorno a questo tema si dividono al loro interno e si aggregano in modo assolutamente inedito.
La sinistra umanitaria e universalista e la destra xenofoba e identitaria, per quanto apparentemente agli antipodi, non hanno infatti difficoltà ad incontrarsi nella comune avversione per l’Europa dei tecnocrati, avendo dimostrato alle urne di saper dare voce ad un malessere sociale che i partiti tradizionali, quelli di tradizione socialista-riformista e quelli di matrice cristiano-popolare, faticano invece a comprendere e a intercettare politicamente.
Anche perché questi ultimi si trovano ormai in una condizione che li rende sempre meno riconoscibili e attraenti agli occhi dei loro potenziali elettorati: proprio la sfida portata dal nuovo radicalismo anti-europeo, non senza validi argomenti, li costringe sempre più spesso a coalizzarsi e a collaborare a difesa del sistema istituzionale e dello status quo, sulla base peraltro di ricette sociali ed economiche che assomigliandosi sempre di più fanno venire meno le differenze tra i loro rispettivi programmi e obiettivi. La destra moderata e la sinistra riformista sembrano rappresentare ormai un grande centro, apparentemente sordo alle richieste dei cittadini e sin troppo ligio ai dettami del politicamente corretto, il che significa lasciare campo libero di demagoghi e agli avventurieri che lo accusano di fare solo gli interessi dell’establishment.
C’è poi da considerare che la forza del nuovo populismo di destra e di sinistra, mentre molti osservatori ufficiali continuano ad evocare i fantasmi del comunismo e del fascismo novecenteschi, consiste nel non avere ancoraggi ideologici diretti col passato. La sua capacità di attrazione – come dimostrano Grillo in Italia, la Le Pen in Francia e appunto Tsipras in Grecia – è assolutamente trasversale, dal momento che trasversali, cioè senza colore politico e senza una matrice sociale definita, sono le paure e le ansie sulle quali esso fa leva. Paure e ansie che, nella percezione di coloro che le vivono, hanno la loro origine soprattutto nelle ricette economiche-sociali perseguite dai governi nazionali sotto il controllo stringente delle istituzioni comunitarie. E che possono essere intercettate da chiunque abbia l’abilità di prenderle sul serio, invece di stigmatizzarle, e di trasformarle in un programma credibile di battaglia: si tratti di un comico qualunquista, di un giovane contestatore d’estrema sinistra, di un professore universitario improvvisatosi tribuno o di un vecchio arnese dell’estrema destra riciclatosi come salvatore della patria.
Questo tratto non ideologico, anzi pragmatico e persino spregiudicato, dei partiti populisti e di protesta che ovunque in Europa vanno crescendo, se da un lato consente apparentamenti bizzarri e potenzialmente preoccupanti come quello che si sta registrando in Grecia, ha però almeno un vantaggio: raggiunta la sfera del potere, perché così hanno deciso i cittadini, bisogna smetterla con le promesse e le accuse al prossimo e misurarsi sul terreno dei fatti e delle cose concrete. Gli anti-europeisti al potere ad Atene adesso non possono più confidare nella propaganda o nei cattivi umori dei loro cittadini. Debbono governare, cioè proporre ricette economiche, fare riforme istituzionali, intervenire sul piano delle politiche sociali, mediare con i partner internazionali, ecc. E così presto capiremo se quello greco è un esperimento di portata epocale o semplicemente un effimero scherzo della storia.
*Editoriale apparso sui quotidiani “Il Messaggero” e “il Mattino” del 27 gennaio 2015.
Lascia un commento