di Alessandro Campi

untitledDa un uomo schivo e timido non ci si possono aspettare grandi slanci di oratoria politica, ma parole chiare, semplici e possibilmente sincere. Come quelle pronunciate ieri da Sergio Mattarella per il suo insediamento al Quirinale. Un discorso che Renzi – esagerando per dovere istituzionale – ha trovato «bellissimo», che ad altri – per foga inutilmente polemica – è apparso sin troppo noioso, ma che tutti hanno comunque lodato per l’equilibrio e l’asciuttezza dei contenuti. Il doroteismo, prima che una corrente di partito, era dopotutto uno stile e un modo di porsi sulla scena pubblica.

Il clima in cui è maturata l’elezione del nuovo Capo dello Stato, segnato da polemiche e asprezze, imponeva del resto un intervento misurato e soprattutto conciliante erga omnes, a partire ovviamente da chi non l’ha votato. Un discorso che, vista l’occasione assai ufficiale, è risultato inevitabilmente intriso di buoni proponimenti, di facile retorica e di alti richiami ideali, ma non per questo è risultato banale sul piano delle indicazioni politiche.

Agli italiani sfiduciati e preoccupati, a causa soprattutto delle difficoltà materiali, bisognava mandare un segnale di speranza. Mattarella lo ha fatto mettendo in primo piano la crisi economica e il rischio che quest’ultima favorisca la disgregazione del tessuto sociale e a seguire di quello politico-istituzionale. L’indicazione al governo è apparsa chiara: servono interventi immediati per rilanciare la produzione e l’occupazione, ma soprattutto per contrastare il crescente impoverimento della fasce sociali più deboli. Forse in questa parte del suo discorso c’era anche una velata critica verso una politica troppo incline a fare promesse e annunci che, se non rispettati, fatalmente poi alimentano il risentimento e la sfiducia.

Ma un messaggio chiaro doveva arrivare anche alla classe politica, inutilmente sferzata da Napolitano per mesi affinché affrettasse il processo delle riforme istituzionali. Mattarella, diversamente dal suo predecessore, non si è rivolto ai parlamentari con un tono di rimprovero, come da docente severo ad allievo zuccone, ma ha comunque ribadito la necessità di completare il percorso nel tempo più breve. Bisogna “riformare la Costituzione per rafforzare il processo democratico”, ha sostenuto il nuovo Presidente: un’affermazione non scontata per chi viene dalla sinistra democristiana, che ha sempre alimentato una visione idealizzata e conservatrice,al limite dell’intangibilità, della Carta repubblicana.

Tra le diverse fasce sociali con le quali ha idealmente interloquito, nello spirito ecumenico con cui deve parlare chi rappresenta una comunità nazionale, un’attenzione particolare è stata rivolta ai giovani: l’attenzione posta sul diritto allo studio, sulla necessità di valorizzare il loro merito e i loro talenti, potrà anche essere parsa una concessione al giovanilismo imperante, ma ha comunque colto il punto debole, dal punto di vista culturale e strutturale, del modello sociale italiano, generazionalmente squilibrato.

Si è molto parlato, in questi giorni, della cultura politica di cui Mattarella è epigono: quella della sinistra cattolico-democratica. A questa tradizione va certamente ricondotto – oltre l’accenno alla famiglia “risorsa della società” – il suo richiamo al ruolo centrale che nello Stato moderno svolgono le formazioni sociali e i corpi intermedi. E proprio in questa idea partecipativa e mediata della democrazia si può forse vedere il più significativo punto di distanza rispetto alla visione politica che sostiene il suo grande elettore Matteo Renzi, fautore invece di un decisionismo che tende a scavalcare le corporazioni e gli interessi organizzati per affidarsi al rapporto diretto con l’elettore singolo.

Non poteva mancare il richiamo appassionato all’Europa, contrapposta all’angustia del particolarismo nazionale, incapace ormai di assicurare ai cittadini sviluppo economico e una pacifica convivenza. Viene spontaneo segnalare la contraddizione logica nella quale continuano a cadere tutti coloro che mentre chiedono allo Stato sovrano di proteggere i cittadini (sul piano sociale e delle sicurezza), come ha fatto ieri anche Mattarella, al tempo stesso ne auspicano il superamento in una chiave post-nazionale. Più convincente è parso invece il passaggio nel quale allo Stato, sotto forma di burocrazia e pubblica amministrazione, è stato chiesto uno sforzo per meglio assecondare le richieste e le necessità dei cittadini.

Alcuni dei temi più scottanti accennati nel discorso – la corruzione dilagante, la messa in guardia contro le mafie vecchie e nuove, l’allarme relativo al terrorismo internazionale, l’invito ad una giustizia più veloce (un passaggio che stranamente non ha strappato alcun applauso) – altro non sono che i problemi, in certi casi atavici, con i quali l’Italia deve misurarsi: richiamarli in forma solenne non è stato inutile. Tutto il resto che si è sentito era invece semplicemente doveroso vista l’occasione: il richiamo alla Resistenza, la professione di imparzialità (ma sarà arbitro se i giocatori saranno a loro volta corretti), il saluto alle Forze Armate (con quell’esplicito omaggio ai due marò che non deve essere dispiaciuto al centrodestra), la declinazione dei diritti individuali e sociali previsti dalla Costituzione, l’enfasi sullo spirito comunitario e sulla difesa dell’unità nazionale. Ma ciò che è doveroso non è a sua volta inutile.

Viene spontaneo chiedersi, alla luce del discorso sentito ieri, cosa dobbiamo attenderci da questo nuovo Presidente. L’idea che si possa dedurre una linea d’azione politica da alcuni aspetti del suo carattere – la riservatezza, il manifesto rigore morale, la frugalità – è un errore. Se sarà arbitro o giocatore dipenderà semplicemente dalle contingenze politiche e dalle condizioni del nostro sistema politico, visto che il dettato e la prassi costituzionali gli consentono di svolgere entrambi i ruoli. Interventisti, quanto si è al Colle, lo si diventa sempre per necessità.

Tutto ciò detto, era forte – mentre Mattarella parlava – l’impressione di un tuffo politico-culturale nel passato: per il clima mesto e austero che sorreggeva le sue parole, per la descrizione nel suo discorso di un’Italia che sembra quella povera del dopoguerra, per il fatto stesso che parlava un uomo formatosi agli insegnamenti di Aldo Moro. Un salto all’indietro che però non può certo essere imputato al nuovo Presidente, bensì ai fallimenti e agli errori di chi in questi vent’anni non ha fatto altro che promettere un cambiamento che non c’è mai stato e che forse si realizzerà, nel prossimo futuro, ma sotto l’occhio vigile di un uomo formatosi nella Prima Repubblica. E visto che parliamo di fallimenti ed errori, viene da chiedersi se Berlusconi – ieri presente alla cerimonia di insediamento e protagonista come sempre di qualche salace siparietto – troverà il modo di scontare politicamente quelli, assai grossolani, che ha commesso nella partita per il Quirinale. Ai tempi della Prima Repubblica, visto che siamo in vena di nostalgiche rivalutazioni, i politici che sbagliavano o prendevano una suonata almeno per un po’ si facevano da parte.

*Editoriale apparso sul quotidiano “Il Messagero” (Roma) del 4 febbraio 2015.

 

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