di Alessandro Campi

imagesCA19TVAIPer il mondo in senso lato occidentale, la minaccia che viene dalla Libia, dove sta crescendo la presenza dei combattenti che sostengono il Califfato, ha a che vedere essenzialmente con il rischio che il terrorismo islamista ispirato da Al–Baghdadi possa stabilmente insediarsi al centro del Mediterraneo, facendone la base ideale (anche dal punto divista simbolico) per la sua proiezione propagandistica e militare verso l’Europa.

Per l’Italia, il pericolo che deriva dal caos libico è invece doppio e dunque più grande che per altri Paesi. Alla questione della sicurezza e del contrasto al terrorismo, che ha già imposto ovunque nel continente uno stato di crescente allarme per la paura di attentati, da noi si aggiunge infatti quella di un’immigrazione clandestina che per i gruppi armati che la organizzano e la gestiscono non è più solo un redditizio affare economico, ma è diventato anche un formidabile strumento di pressione mediatico-demografica dagli effetti sociali e politici in prospettiva destabilizzanti.

È il problema enfatizzato in queste ore soprattutto dalla Lega di Salvini, che ne sta facendo un efficace tema di agitazione elettorale, ma che nessuna forza politica – tantomeno quelle che hanno responsabilità di governo – può a questo punto sottovalutare. La scelta di imbarcare i clandestini con la violenza e di spedirli a migliaia verso le coste italiane, anche con condizioni del mare proibitive che fatalmente li espongono ad un serio rischio di morte, è già una forma indiretta di terrorismo, peraltro facilmente predetta da Gheddafi, poco prima che venisse abbattuto, come strategia d’attacco verso il nostro Paese.

La drammatica consapevolezza, maturata nelle ultime settimane, di dover affrontare questi due problemi in modo congiunto e nel più breve tempo possibile spiega probabilmente il modo oscillante, persino avventato, ma a suo modo perentorio e tempestivo con cui il governo italiano, contrariamente al modo d’agire dilatatorio e obliquo tipico della nostra classe politica, ha preso posizione sulla questione della Libia: prima lasciando intendere di essere addirittura disponibile ad un intervento militare diretto come risposta inevitabile ad una minaccia crescente, poi invocando la copertura dell’Onu e della comunità internazionale in caso di azione militare, infine virando sulla soluzione politico-diplomatica e sulla ricerca di una mediazione tra le diverse fazioni che attualmente lottano all’interno della Libia. Atteggiamenti e soluzioni diversi, ma sempre nel segno di un’estrema urgenza.

La ricerca di un accordo tra il Parlamento di Tobruk e quello di Tripoli per la creazione di un governo di unità nazionale, considerata come la condizione necessaria per frenare l’infiltrazione dell’Is tra i gruppi del radicalismo islamico, è la strada concordata alla fine dall’Italia insieme ai suoi alleati (come ha spiegato ieri il ministro degli esteri Gentiloni dinnanzi alle Camere) e ufficializzata sempre ieri anche dal Consiglio di sicurezza dell’Onu. Si teme, evidentemente, anche alla luce dell’esperienza del passato, che un intervento militare sul suolo libico – anche se reso legale da una risoluzione delle Nazioni Unite e anche se condiviso con altri Paesi arabi (a partire dall’Egitto) – possa favorire la convergenza, in chiave nazionalistica e anti-occidentale, di tutti i gruppi più meno legati al fondamentalismo islamico, sino a spingerli definitivamente tra le braccia dell’Is.

Ma è una strada, quella negoziale, non solo difficile, lunga e a serio rischio di fallimento, vista la mancanza in Libia di interlocutori che siano al tempo stesso facilmente identificabili, sicuramente affidabili e soprattutto in grado, viste le divisioni tribali e il frazionamento delle forze, di mantenere gli impegni eventualmente assunti. È anche una strada che, persino nel caso si rivelasse risolutiva, potrebbe non compensare gli sforzi necessari all’Italia per fronteggiare – senza alcun aiuto internazionale, come si è visto in queste settimane – l’emergenza degli sbarchi sulle sue coste e l’arrivo di clandestini tra i quali potrebbero, a questo punto, facilmente infiltrarsi delle cellule terroristiche. Insomma, un beneficio futuro peraltro assai incerto, vale a dire la stabilizzazione politico-militare della Libia per via diplomatica, potrebbe non bilanciare un danno sicuro nell’immediato per l’Italia: la cresciuta esponenziale sul nostro territorio di immigrati clandestini che non pochi problemi rischiano di causare all’ordine pubblico, senza considerare il collasso ormai imminente della nostra rete assistenziale, i costi crescenti per casse pubbliche e infine la beffa di vedersi addossare sulla coscienza, agli occhi del mondo, le morti della centinaia di sventurati che purtroppo non si riesce a strappare al loro tragico destino.

imagesCASGKVJXCiò significa che mai come in questo momento l’Italia, proprio perché in prima linea e più esposta di altri Stati, ha tutto il diritto di far valere le sue ragioni nelle diverse sedi internazionali, di essere attivamente coinvolta nelle decisioni che verranno adottate e soprattutto di premere perché si agisca in Libia – per via politica o militare – con la più grande rapidità.

Terrorismo e immigrazione sono beninteso due fenomeni assai diversi e sarebbe un errore assimilarli in astratto, come una certa propaganda politica di stampo populista tende a fare allo scopo di suscitare allarme tra i cittadini e di lucrare sulla paura che quest’associazione inevitabilmente genera. Ma in questo momento, nel crogiolo libico essi si sono drammaticamente fusi, dal momento che il primo sta platealmente usando la seconda come un’arma, per neutralizzare la quale ormai non bastano più gli interventi in chiave umanitaria o di assistenza. L’Italia lo ha capito, a sue spese, e si sta ponendo il problema, non privo di dolorosi risvolti etici, di come si possa passare dai salvataggi in mare ad un’azione di contrasto, anche militare, che impedisca – almeno sino a che la situazione politica della Libia non si sarà chiarita – gli imbarchi forzosi di popolazione dalle sue coste. Ma è bene che a questo punto lo capiscono anche l’Europa e tutti i nostri alleati, evitando di lasciarci soli ad affrontare un problema che in prospettiva potrebbe diventare foriero di pericoli per tutti.

* Edioriale apparso sui quotidiani “Il Messaggero”(Roma) e “Il Mattino” (Napoli) del 19 febbraio 2015.

 

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