di Giuseppe De Lorenzo – 7.03.2015
Quella di Salvini a Roma è stata una piazza confusionaria nei riferimenti ideologici. Può essere considerata al tempo stesso lepenista, populista, per alcuni è fascista, per altri solo nazionalista. Eppure il partito si chiama ancora Lega Nord: è regionalista e indipendentista, governa nel Veneto e non ama il sud. Matteo Salvini è consapevole che a seguirlo non sono più le indisciplinate ma fedeli masse di Pontida, bensì qualcos’altro, un elettorato variegato e a tratti contradditorio che, per questo, necessita di essere nutrito ideologicamente in maniera differenziata.
La prima domanda cui occorre rispondere, dunque, è dove possa collocarsi il Carroccio oggi, dopo averlo relegato per anni all’angolo delle rivendicazioni territoriali.
Sicuramente la Lega Nord è un movimento «contro». Contro Renzi, il governo, la sinistra, il centro e un po’ anche contro il centrodestra. Tuttavia, si distingue dai Cinque Stelle. Perché quello del comico genovese era apparso sin da subito un movimento di protesta schierato a sinistra, o quantomeno appassionato a rivendicazioni che di certo non appartengono alla storia o alla tradizione della destra. In seconda battuta, perché la Lega di oggi non è sorta a Bologna con un Vaffa-day (anche se non disprezza l’uso del famoso dito medio) e non è arrivata di colpo in Parlamento, ma ha governato per molti anni a Roma e, soprattutto, controlla ancora due Regioni importanti come Veneto e Lombardia. Il Carroccio possiede quell’esperienza politica che mancava ed ancora latita tra i 5 stelle, inesperienza fatale e causa della reclusione dei grillini ai margini della scena politica. Incapaci di trasformare la protesta in proposta e sfida di governo.
Salvini potrebbe (il condizionale è d’obbligo) non cadere in questo errore, perché i vari Maroni, Zaia e Calderoli sono ancora dentro al partito e la politica sanno farla, possono consigliare, lavorare per le alleanze su mandato del leader anche mentre costui tiene caldo l’elettorato con felpe ed ultimatum a Forza Italia.
L’altro quesito fondamentale è se la Lega sia davvero una forza politica di destra. Questa etichetta Bossi la sente stretta addosso: in un’intervista a «Repubblica» il giorno della marcia salviniana su Roma ha detto che l’alleanza con Casa Pound è frutto delle contingenze. Forse Salvini non sarà l’erede di Almirante, non sarà cresciuto in quell’ambiente caro alla Meloni, ma piace agli elettori che in quegli ideali si riconoscono. Secondo la ricerca condotta da Demos, il 30% dei simpatizzanti leghisti si autodefinisce “di destra”. La Lega ha significato per molti di essi il ritorno della politica dopo anni di immobilismo: di certo l’incapacità di rinnovamento del centrodestra ha generato disaffezione e fuga dalle urne, diserzione che è andata ad ingrossare le fila leghiste e quelle dell’astensione.
L’ultimo grande interrogativo riguarda i riferimenti ideologici. Il Pantheon della Lega non esiste più. È sfumato, anche se sono ancora vive le immagini di Alberto da Giussano, anche se tra i suoi profeti ricorda ancora Gianfranco Miglio, anche se sono tuttora vive in fondo al cuore le suggestioni dell’ampolla con l’acqua del Po. Ma l’ex consigliere comunale di Milano ha compreso di avere tra le mani un’occasione che non può gettare al vento. Dopo il risultato delle Europee, dove ha strappato alla destra la carta vincente dell’uscita dall’Euro, ha capito di aver creato un vuoto che doveva essere riempito: “piatto ricco, mi ci ficco”. Per mantenere il piede in diverse staffe, dal regionalismo leghista al nazionalismo di destra, Salvini è però obbligato a concedere ad ognuna delle molte anime del suo nuovo seguito un contentino ideologico. Creando una confusione proverbiale: tra i libri di don Milani e le battaglie del grano di Casa Pound c’è un abisso, ma questo non sembra importare agli elettori.
Occorre dunque chiedersi se può aver futuro un movimento come quello della Lega. I moderati sostengono di no, perché difficilmente un leader estremo potrà portare alla vittoria una variegata coalizione di centrodestra. Ed è vero. Ma è altrettanto probabile che Salvini avrà futuro politico almeno finché ne avrà Marine Le Pen in Francia. E nel caso in cui la crescita del Front National dovesse superare le aspettative e vincere le elezioni, la Lega potrebbe legittimamente dire «anche noi siamo una forza di governo», reclamando per sé il seggio di capo della coalizione moderata.
Certo, al momento Salvini è molto più lontano da Palazzo Chigi di quanto non lo sia l’alleato francese dall’Eliseo. Tutto dipenderà da quanto consenso saprà raccogliere il Carroccio: se superasse il 18% alla prossima tornata elettorale, generando l’inevitabile crollo di Forza Italia, non potrebbe più essere considerato solo una mina vagante. Per questo in molti guardano agli ultimi sondaggi, che danno la Lega al 13,5% al Centro-Sud, al 6,2% nelle Isole e al 9% al Centro. Con un incremento medio, in queste aree, dell’8% rispetto al 2013. Basterà? No, non per vincere. Tuttavia potrebbero essere voti sufficienti per conquistare il centrodestra.
Ecco perché il consiglio federale ha commissariato la Liga veneta. Salvini non vuol dilapidare un patrimonio di voti conquistati con radicalismo, semplicismo e – se volete – con le grida verso la pancia della gente. Puntare ora il voto moderato (come vorrebbe fare Tosi) non ha senso, pensa Salvini, perché battere Renzi sarebbe un’utopia. Per farlo servirebbe che Forza Italia fosse almeno unita al suo interno, meno litigiosa e più attraente.
Se arrivare a Palazzo Chigi è impossibile, tanto vale fidelizzare l’elettorato conquistato finora e magari ampliarlo il più possibile, sottraendolo alle fila forziste. Poi si vedrà.
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